giovedì 28 dicembre 2006

Pezzi di Londra


Katharine's Wharf è la scoperta di un angolo girato, lasciandosi alle spalle gli antichi torrioni e il ponte rinomato.


KW è sciabordio e silenzio, una finestra a bovindo illuminata, dietro ad un davanzale di bosso, e un trafficare di operai, scale e pennelli, di preparativi e attesa, e pareti color panna intonse, pronte ad accogliere una credenza solenne ed un paio di piedi scalzi che corrono verso una lampeggiante segreteria telefonica.


KW è la City ad un passo, ma come fosse un segreto, è gli yacht ormeggiati davanti al portone di casa, ed è anche questo monoalbero tutto di legno e questo berretto di lana blu.


E’ un divano di pelle, in un piccolo bar chiaro e semplice e profumato, ed è anche questo caffè da mescolare con la palettina di legno e da tenere ancora un attimo sotto al naso e fra le mani.


St_catherine_docks_2  KW è lusso e pace, ma è anche giovane e vivo divenire.


KW è Londra, ma è anche il Tamigi racchiuso nell’incavo di una mano. E’ la mia letterina a Babbo Natale, il libro che vorrei aprire, ed il luogo in cui vorrei tornare. Ma non sono sicura che esista davvero.


mercoledì 6 dicembre 2006

Sul perchè fare figli

Tempo fa un blogger che leggo spesso ha sollecitato una riflessione sul tema “perché gli esseri umani fanno figli” (to be continued?): in particolare, ha posto la seguente questione: “tra il vivere per fare figli, e il farne per accidente, e non sapere bene che cosa farne, se trasmettere e/o educare e il dire sì perché dà meno fastidio, esiste una terza via?



 


Ci ho pensato, come può pensarci una persona che ancora figli non ne ha e che ha intorno tante persone che figli ne hanno, e ne fanno, in modo diverso, per ragioni diverse. Ci ho pensato come può farlo una persona che si illude di poter guardare tutto questo con gli occhiali di chi “è fuori”, ma che è anche consapevole che questi occhiali forse altro non sono che un modo per rendere socialmente accettabile una paura. Questa premessa solo per dire che le riflessioni che seguono non nascono dall’esperienza, ma solo dall’osservazione e dalla riflessione, che, tra l’altro, non è mai del tutto neutra.


 



Comunque. Penso che almeno una terza via esista, e mi sono fatta l’idea che possa essere quella di fare figli non tanto, o non solo, per “fare” ma soprattutto per “essere”: per essere genitori.


 



Bimbi_piedi Provo a spiegare: credo che buona parte di noi esseri umani abbia in sé una spinta a “divenire” e, socialmente parlando, noi “diveniamo” assumendo diversi ruoli.


Siamo, o siamo stati, tutti figli. Siamo, o siamo stati, tutti amici, studenti, lavoratori, professionisti, o imprenditori, fidanzati, amanti, qualcuno è, o è stato, moglie o marito. E nei diversi ruoli mettiamo, o abbiamo messo, in gioco qualcosa di noi che è ricorrente e ci caratterizza nei diversi ambiti ma anche qualcosa che esprimiamo solo e soltanto in relazione a quello specifico ruolo.


Come dire che solo interpretando certi personaggi abbiamo la possibilità di far suonare certe nostre corde e magari anche di scoprire corde, e accordi, nuovi.


 


Il ruolo di genitori, in particolare, credo che ci costringa (o ci consenta, dipende dai punti di vista) a sperimentare e a mettere in gioco qualcosa di noi di assolutamente unico.


Forse quindi una possibile ragione che ci porta a fare figli è il desiderio di divenire genitori, di realizzare una potenzialità, non solo geneticamente attraverso la procreazione, ma anche socialmente attraverso un nostro nuovo modo di essere e di fare.


 



Non è un caso se molti genitori annoverano fra i momenti più emozionanti della loro vita quello in cui per la prima volta sono stati chiamati “mamma” o “papà”. Quello è il momento in cui il nuovo ruolo viene riconosciuto dal partner principale, dal figlio, senza il quale essere genitori non è possibile.


Non è un caso se molte volte scorgo nelle mamme che spingono davanti a loro un’ingombrante carrozzina quell’aria vagamente compiaciuta di chi ha raggiunto uno status sociale di cui è fiero, legittimamente fiero. Quello è il momento in cui ci presentiamo in società nel nuovo ruolo. E, si sa, senza un pubblico non c’è ruolo, non c’è personaggio.


 



Se poi, questa ipotetica terza via, sia una buona via, io ancora non l’ho capito.


Certo penso che se qualcuno fa figli perché desidera essere genitore allora tra il trasmettere o l’educare e il dire di sì perché da meno fastidio, un’altra modalità la dovrà quantomeno cercare, e dovrà essere una modalità che consenta a figli e genitori di esprimere quello che sono e che desiderano diventare. Altrimenti il gioco non vale la candela.

venerdì 1 dicembre 2006

Semplicemente, grazie

Capita a volte di trovare grandi scatole d’affetto dove meno te lo aspetti, un affetto limpido e chiaro e completamente inatteso come certe giornate di sole in pieno inverno.


Capita di inciampare in grandi scatole anonime, non certo vestite da regalo ed infiocchettate di luce e di colore, scatole senza un biglietto che ti dica “apri, c’è qualcosa per te”, insomma certe scatole che ti verrebbe spontaneo lasciare lì sulla strada e tirare dritto, tanto più che con tutte le cose che hai da fare non ti sembra proprio il caso di perderci del tempo.


Invece magari capita che quel giorno ti fermi e la apri e salta fuori come una sorpresa - neanche fosse quel famoso genio della lampada che ti sei preso la briga di strofinare –un grande affetto caldo e discreto e semplice e vero che non puoi far altro che sentirti grato, non in debito, come quando scarti un regalo e pensi subito “come farò a ricambiare”, soltanto grato e fortunato per aver pensato che potevi anche fermarti e aprirla, quella scatola che sembrava così anonima e invece non lo era.

sabato 25 novembre 2006

Lettera a una bambina appena nata


Ciao Sofia, ben arrivata in questo mondo.


 


Sei arrivata in anticipo, sorprendendo tutti noi che ti aspettavamo e ti immaginavamo da tanti mesi, e questo mi è sembrato un buon segno: forse vuol dire che sei una persona curiosa, che non perde tempo, forse vuol dire che non vedevi l’ora di venire a vedere di persona com’è fatto questo mondo, così appena ti sei sentita abbastanza in forze sei volata fuori dal tuo nido prenatale ed eccoti qua.


Ed io, che volevo solo dirti benvenuta, adesso che ho davanti un foglio bianco e il ricordo dei tuoi occhi ancora chiusi, non riesco a soffocare questa insana voglia di dare consigli che caratterizza noi adulti, come se avessimo sempre bisogno di dire la nostra, di far sentire che ci siamo. Porta pazienza, è solo l’inizio.


 


Pensa, da domani aprirai gli occhi e inizierai ad imparare, avrai la capacità di imparare una quantità incredibile di cose nuove ogni giorno, e la curiosità di fare sempre un passo in più, di capire, di scoprire, di usare, di comunicare, di conoscere.


Se fosse possibile, ti chiederei in prestito i tuoi i occhi, il tuo naso, le tue piccole dita, per provare di nuovo cosa vuol dire scoprire le cose senza preconcetti e senza paure.


Se ci riuscirai, Sofia, non perdere questa capacità, conservala come una cosa preziosa, perché è ciò che distingue gli uomini e le donne migliori da quelli mediocri - e questo sarebbe la cosa meno importante - ma soprattutto è ciò che contraddistingue gli uomini e le donne felici.


Io questo più di tutto ti auguro: di avere sempre voglia di imparare e di non avere mai paura di scoprire che quello che avevi creduto fino ad un attimo prima era sbagliato.


 


E comunque, non ascoltare troppo i consigli delle vecchie zie!


 


venerdì 24 novembre 2006

Non si scopa più

Oggi ospito sul mio blog uno scritto di Lui, che qualche volta ama divertirsi con le parole ma è un po' troppo pigro per crearsi un blog tutto suo!


Tempi moderni. Nel nostro tempo viviamo comodi come nessuno prima di noi, eppure siamo sconfitti dal ‘trend in flessione’ .. di tutto. Siamo depressi per quanto cerchiamo e non abbiamo, ma cosa cerchiamo .. e cosa non abbiamo. Abbiamo tanto, tutto ciò che di materiale desideriamo e nell’immateriale ci tuffiamo alla scoperta di ciò che i nostri padri non avevano tempo di cercare .. e pensiamo. Abbiamo la psicologia che tutto spiega, ma nonostante spieghi tutto ricorriamo ad essa sempre più spesso come se le poche cose inspiegabili diventassero ogni giorno di più .. quando ci servirà qualcosa per dar ragione della psicologia? Chi lo sa, forse ci manca in realtà solo il ‘trend positivo’, che vince su tutto e potrebbe ridarci il buonumore degli anni ’50, solo quando non avremo più niente e saremo costretti a risalire perché prima non abbiamo rinunciato o non ci siamo dati regole: la storia si ripete e non insegna mai. I nostri costumi cambiano di pari passo a questo divenire molto irregolare perché proviamo continuamente a estendere il batuffolo di cotone che ci siamo donati come bozzolo, ma non vogliamo uscirne. Questo nostro modo di vivere in linea con il nostro costume in cambiamento ci ha allontanato dalle nostre esigenze primarie: dormiamo male, mangiamo peggio, l’acqua potabile scarseggia e addirittura respiriamo sempre peggio nel nostro bozzolo inquinato, l’importante è che sia bozzolo anche se è pieno di rifiuti. Abbiamo perso la consapevolezza delle cose importanti. Non sappiamo più cosa vogliamo e dimentichiamo tutto il necessario e le cose su cui si basa la nostra vita: e non scopiamo più.


Me ne accorgo con disperazione tutti i sabati mattina quando vinto dal desiderio liberato nel sogno sento un fruscio nel sonno, che cresce di volume, che diventa un vento, regolare, come spinto da un motore. E forse mi illudo che questo sia un moto interno, di rivalsa verso questo mondo che ci ruba le basi e ci convince che è meglio costruire su un budino, magari fatto di credito al consumo. Sempre più insistente e impetuoso questo vento, alla fine un disturbo, mi sveglia. E allora mi rendo conto che il fruscio, diventato vento, era effettivamente spinto da un motore, un motore portato a spalla da volonterosi operatori alle 6:00 del mattino.


Questi signori hanno sostituito la scopa con un attrezzo che simula il vento. Un tempo raccoglievano le foglie ora no, le disperdono, inquinando l’aria con i loro rumorosi motori a scoppio e inquinando l’etere con i decibel emessi dai draghi sputavento .. e mi svegliano quando potrei dormire .. e non raccolgono le foglie(o forse si ma non fa molta differenza) e anzi alzano polvere in un ambiente che di sano non ha più neppure quella: ora è sottile sempre più sottile e ci condanna i polmoni a ogni respiro. Se è vero che è così sottile e velenosa io la bagnerei perché non si alzasse, invece no, alziamola e respiriamola e svegliamoci per assistere alle operazioni. Ma dobbiamo essere contenti perché queste gente presta la propria energia in una attività di sacrificio e disagiata che forse per questo è anche meglio retribuita dell’attività ordinaria(orari non confortevoli e mascherine obbligatorie per non morire soffocati) e quindi più costosa per la comunità, ma che dimostra senza necessità di ulteriori spiegazioni la sua utilità e il valore prodotto per la comunità.


Preferivo le vecchie scope e anche le vecchie scopate di un mondo più semplice, più povero, più concreto. Una volta le foglie si raccoglievano con la scopa e senza sollevare tanta polvere e tanto clamore e con minore dispendio di energie andavano a finire al posto giusto e non c’era neanche il bisogno di chiedersi il perché. Torniamo a scopare, è sano e naturale e poi la notte si dorme anche meglio, dopotutto, e diciamolo anche ai signori con la mascherina e anche a quelli che gli hanno detto che la scopa non si usa più.


 


Lui

giovedì 16 novembre 2006

Voglio scriverla sui muri...

Voglio scriverla sui muri,


la mia poesia


Non su pagine sottili,


per tenaci sfogliatori attenti


Voglio scriverla sui muri,


la mia poesia


Perchè la gente la riceva


come sole, pioggia o vento,


come un gesto d'amore,


come la sorte.

lunedì 13 novembre 2006

Una gentile richiesta di aiuto

Direttamente dal bosco di noccioli che circonda la casa dei miei nonni mi è giunto un sos, portato dal muso compìto dello scoiattolo che si è affacciato alla ringhiera del mio terrazzo proprio questa mattina.


Ha detto che la sua comunità è assai preoccupata perché ha saputo che qualcuno vuole far credere che gli scoiattoli preferiscano ricevere in dono degli strani dischetti di metallo al posto di vere nocciole, non hanno capito bene ma pare che infilando questi dischetti di metallo in apposite fessure cadano ai loro piedi dei bastoncini dolci al vago sapore di nocciola. Ma quale scoiattolo, egli dice, potrebbe preferire questa complicata procedura ad una croccante nocciola vera?


Insomma, prima di tutto ne va della loro immagine, verso il mondo degli uomini e verso l’intero regno animale: non ci tengono proprio, gli scoiattoli, a passare per fessi.  Inoltre sono preoccupati per il futuro: se i bambini dovessero credere a questa calunnia i loro cuccioli presto potrebbero ritrovarsi a saltellare per i parchi brandendo dischetti metallici alla disperata ricerca di una fessura, che, nella migliore delle ipotesi li rifornirà di un surrogato con cui sarebbe molto dura superare l’inverno.


 


Poiché mi sembra che l’sos sia degno di essere ascoltato faccio la mia parte passando parola, sperando che questo tam tam giunga alle orecchie attente di chi ha progettato la pubblicità in cui uno scoiattolo si mostra felice di aver ricevuto in dono una monetina che può utilizzare per procurarsi una merendina in un distributore. Se qualcuno volesse aiutarmi, gliene sarei grata!

mercoledì 8 novembre 2006

Ho sentito dire...

- Oggi mi fa male il ginocchio...-


-Eh, ma è il tempo. Anche il mio fa così quando cambia il tempo: è come un termometro, meglio di quelli che fanno l'oroscopo in televisione!-


 

martedì 7 novembre 2006

Chiedi lavoro o offri lavoro?

"(..) Sui quotidiani italiani alla pagina intitolata “OFFERTE DI LAVORO” troviamo inserzioni di aziende che cercano persone disposte a svolgere per loro determinati compiti, mentre alla pagina intitolata “DOMANDE DI LAVORO” troviamo inserzioni di persone che cercano aziende (/organizzazioni/persone/...) disposte a remunerarle in cambio dello svolgimento di determinati compiti.


In altri paesi accade esattamente il contrario.


Nelle banche dati utilizzati da alcuni servizi per l’impiego accade esattamente il contrario.


Dunque?


Qualcosa di certo c’è: tutti cercano, e cercano qualcosa che ha che fare con il lavoro. Ma il lavoro dov’è? o meglio chi ce l’ha? O forse, prima ancora, dovremmo chiederci: il lavoro cos'è?


Infatti, se per lavoro si intende "posto di lavoro" sono certamente le aziende ad averlo, e a poterlo offrire in cambio di una prestazione X.


Ma se per lavoro si intende "il presidio di una determinata area di attività", allora sono le persone a possederlo: sono le persone ad avere la capacità di svolgere dei compiti. In questo caso sono le persone ad offrire la loro capacità di lavorare e le aziende ad averne bisogno, quindi a “fare domanda”.


Credo che oggi si possa scegliere, anzi si debba scegliere.


Se siamo quelli che il lavoro lo chiedono allora scendiamo in piazza e chiediamo a qualcun altro di darci il nostro posto di lavoro, il nostro stipendio, le nostre garanzie, indipendentemente da quello che siamo e da quello che sappiamo fare. Indipendentemente  dal fatto che quello che siamo o che sappiamo fare alla nostra società sia utile o no, indipendentemente dal risultato di ciò che facciamo.


Se invece siamo quelli che il lavoro lo offrono allora iniziamo a chiederci che valore ha quello che offriamo, e adeguiamoci. Se vogliamo poter chiedere in cambio di più, allora dobbiamo offrire di più. E dobbiamo sapere di poterlo fare, dobbiamo sapere che possiamo svolgere dei compiti indispensabili e svolgerli in modo eccellente. Che possiamo essere richiesti per questo.


E che qualcuno dovrà ringraziarci per questo.


Perciò scegliere da che parte stiamo è un problema di orgoglio e di rispetto.


Ed è un problema urgente.


Allora, indipendentemente dalla terminologia dei giornali, tu chiedi lavoro o offri lavoro?"




(febbraio 1998)




sabato 4 novembre 2006

Storie dentro e fuori

Ci sono libri che non hanno solo delle storie dentro, ma hanno anche delle storie fuori. Capita a molti oggetti di essere protagonisti di storie, ma nei libri c’è in più questa possibilità di un doppio livello di storie. Talvolta si crea poi una sorta di corrispondenza fra la storia che un libro narra e la storia che un libro vive, una corrispondenza che ha il potere di rinforzare il messaggio di entrambe le storie.


Ciò che leggerò fra le pagine di questo volume, allora, il senso che darò alla storia che vi troverò dentro, sarà influenzato dal fatto di averlo ereditato, prestato, perso e ritrovato sottoforma di un regalo. E tutti questi passaggi fra mani amate, il senso che  nel ricordo darò a questi passaggi sarà influenzato dalla storia che in questo oggetto è scritta.


Inevitabilmente.


E ancora, ciò che leggerò fra le pagine di quest'altro volume, il senso che darò alla storia che vi troverò dentro, sarà influenzato dal fatto di averlo tenuto con me e spiegazzato nervosamente in una lunga attesa. E quella lunga nervosa attesa, il senso che le darò nel ricordo, sarà influenzato dalle parole stampate che questo oggetto contiene.


Fortunatamente.

domenica 29 ottobre 2006

Do you remember?

Esercizio - tratto da Romanzo Collettivo


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Forse davvero c’è un feeling particolare fra le sorelle gemelle e Meg sente aleggiare ancora la presenza recente di Gloria in quella stanza, o forse è solo una coincidenza se mentre è legata e imbavagliata nella cella di padre Biz le torna alla mente una conversazione con sua sorella, avvenuta molti anni fa, quando avevano ancora 16 anni, e la possibilità di scegliere chi diventare. Forse. Chissà.


Nel ricordo ci sono passi rapidi che scendono dalla scala antincendio con la sicurezza di chi l’ha già fatto mille volte, magari anche al buio, magari ad occhi chiusi pensando “fa che non mi sentano, fa che non mi vedano”. C’è la nebbia dell’imbrunire, che sale dall’asfalto bagnato come vapore mefistofelico, e una sottile Meg di 16 anni che scende i gradini della sua discesa agli inferi, e corre verso l’ennesima serata rubata, con un vestitino che la scopre molto più di quanto non la copra e solo un rossetto del colore del fuoco per scaldarla.


Appena il tempo di mettere piede a terra e ..


Meg, ma che cavolo…


Sst, per l’amor del cielo Gloria non farti sentire


Sei pazza, dove stai andando? Oddio, ma come sei vestita? Sei praticamente nuda….” Ma i suoi occhi da severi si fecero carezzevoli mentre guardava quel corpo identico al suo che esplodeva in una bellezza incontenibile  anche se devo ammetterlo: sei bellissima”.


Anche Meg aveva pensato che sua sorella era bellissima con i capelli legati stretti in una folta coda di cavallo e la tuta della squadra di atletica della scuola che cadeva morbida lungo le gambe flessuose. Non aveva bisogno di nient’altro Gloria per essere bellissima, ma Meg non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura e così disse solo “Ma senti chi parla, sembri chiusa in un sacco. Potrebbe esserci anche un canguro lì dentro, chi potrebbe dirlo”, e quel tono tagliente non era che un modo per costringersi a non dirle “Cosa darei per sapere tenere il collo in quel modo elegante e fiero come il tuo, quel collo che è uguale al mio eppure io non ci riuscirò mai. Cosa darei per poter essere pulita e libera come te.”


Poi un vecchio coupè aveva accostato al marciapiede di fronte ed il suono del clacson aveva infranto quel gioco di specchi di periferia.


E quelli chi sono?”


“Tony e i suoi amici. Lui è nella mia classe di cinema. E’ uno che conta. Solo una come te, che pensa solo a giocare alla piccola poliziotta, poteva non saperlo. Ma dove vivi…”


“E tu cosa hai a che fare con lui?”


“Cos’ho a che fare? Cocca, nell’ultimo mese mi sarò sciroppata almeno una dozzina di film strappalacrime perché si accorgesse di me. Non so perché gli piacciano tanto. Ma chi se ne frega. Quello che conta è che stasera lui e i suoi amici sono qui. Suo zio ha un locale, giù ai Docks. Stasera mi vedrà ballare e se mi prenderà a lavorare da lui, la prossima volta che scenderò da questa scala antincendio avrò a tracolla i miei quattro stracci e qui nessuno mi vedrà più”.


Ma cosa stai dicendo? Così ti metti  nei guai…”


“Cocca mia noi ci siamo nate nei guai, solo che io ho deciso di nuotarci dentro e tenere la testa ben fuori, tu invece ci affogherai dentro e continuerai a raccontarti che va bene così, che in fondo non è male. Sei una sciocca Pollyanna, Gloria: apri gli occhi.”


“Meg se solo ti volessi un po’ più bene, se solo tu potessi portare un po’ di pazienza. Pensa a Steve, cosa ti direbbe lui?”


“Noi per Steve siamo solo un problema, lui ha la sua vita.” E lo sapeva Meg che quelle parole erano puro veleno per sua sorella, lo erano anche per lei, per questo le sputava fuori ogni volta che ne aveva l’occasione. E sapeva anche che le faceva sbattere le finestre nel cervello quando la chiamava Pollyanna. Conosceva quello sguardo, era identico al suo quando vedeva sua sorella che vinceva l’ennesima medaglia nella corsa ad ostacoli e pensava che forse aveva ragione la mamma quando diceva che esiste sempre un’altra strada. Ma alla fine la mamma non aveva più trovate di strade. Quindi. Avanti.


Steve non ha mosso un dito per tenerci con lui.”


“Ma come avrebbe potuto…”


Finiscila. Io quando voglio qualcosa posso sempre. Per questo ora vado”.


Non si era voltata, ma poteva vederla, Gloria, che la guardava allontanarsi con quegli occhi in cui la pietà e l’invidia si mescolavano come in un abbraccio, con la mano stretta alla ringhiera, incurante della sporcizia, al di sopra della sporcizia.


 


 

lunedì 23 ottobre 2006

Tentazione d'autunno

Gocciola la doccia come la pioggia fuori dalla finestra e scivola sui capelli come la pioggia sulle tegole spioventi.


E, come la pioggia, la mia doccia mattutina riscalda l’autunno inoltrato di una voglia di intimità e di silenzio. Voglia di ritornare sotto le coperte ad aspettare il risveglio della clorofilla, e il risveglio della mia gamba ferita. Voglia di rimanere ferma, sapendo che basterà un’attesa quieta, scaldata dallo scorrere libero dei pensieri e del respiro, un’attesa in  cui il male si diluirà lentamente e si scioglierà come humus nella terra.


Ma chi l’ha detto che il tempo cura tutti i mali? A volte invece il tempo scolpisce e conficca il male più a fondo, lo cristallizza e lo fissa per sempre, cambiando le nostre sembianze, costringendoci a trovare nuove vie per sopravvivere, come fanno le radici mutilate, o a soccombere e accettare una nuova forma, fosse anche una inferma immobilità.


E quindi anche oggi brandirò l’ombrello e zoppicherò giù dalle scale, non cederò alla tentazione melliflua della pioggia d’autunno: anche oggi sarò al mio posto, a difendere la possibilità di tornare a correre, quando anche la clorofilla si starà risvegliando.

venerdì 20 ottobre 2006

Ancora sulla Bellezza

"L'intenzione produttiva inficiava la bellezza (...). Le incidenze più potenti della bellezza erano quelle che venivano sentite come scoperte personali, che sembravano essere concepite solo per te, come se qualche sorta di grande intelligenza ti avesse preso da parte, te solo, per mostrarti qualcosa di speciale". (Michael Cunningham - Giorni Memorabili)


Ho letto per caso questa frase e mi è sembrata quasi un commento a proposito del mio post precedente e di altri che in vario modo hanno toccato il tema della bellezza in questi giorni.

martedì 17 ottobre 2006

The Beauty Gap

Sentivo qualche giorno fa al telegiornale che uno dei principali partiti politici degli Stati Uniti d’America, in vista delle prossime elezioni, si è impegnato per ridurre …. la criminalità - direte voi - e invece  no, non la criminalità, e neppure il pericolo di attacchi terroristici, no, non la pressione fiscale, nè il debito internazionale e neppure le emissioni di agenti inquinanti, bensì……….. il Beauty Gap!


Geniale: migliorare il livello di bellezza dei propri candidati per renderli più attraenti agli occhi degli elettori, sfruttando il cosiddetto “effetto alone” per cui ad un bell’aspetto vengono sovente associate in modo inconscio anche altre qualità positive.


Quello che mi lascia esterrefatta non è la strategia in sé stessa: sono ben conscia di quanto importanti siano certi meccanismi nell’influenzare l’elettorato ed è ovvio che qualsiasi schieramento politico che non ne tenesse conto e che non li utilizzasse per aumentare il numero dei voti a proprio favore sarebbe destinato al fallimento.


Quello che mi lascia esterrefatta è che il partito in questione abbia reputato vantaggioso enunciare questa strategia, e l’abbia resa esplicita quasi fosse una dichiarazione di attenzione verso gli elettori.


Dal momento poi che tale dichiarazione non può essere il frutto di una scelta avventata, e certo non sarebbe mai stata fatta se studi statistici attendibili non ne avessero dimostrato l’efficacia, allora mi chiedo: ma davvero quegli elettori a cui si dice apertamente “ci stiamo rendendo più belli per essere giudicati da voi migliori governanti”  invece di ribellarsi indignati a chi li ha potuti reputare così superficiali nell’esprimere il proprio voto, scodinzolanti ringrazieranno e voteranno, compiaciuti di avere finalmente a che fare con rappresentanti politici fotogenici, eleganti e terribilmente carini?

sabato 14 ottobre 2006

La storia semplice di una lezione di cucina: gnocchi di patate – per 6 persone

Quante  patate ci vogliono, nonna?



Tante quante ce ne stanno nella pentola: perché se vengono buoni più ce ne sono più se ne  mangia, se non vengono buoni vuol dire che le patate non erano un granchè, e allora tanto vale buttarle via così si evita che rovinino un altro piatto.


oooo



Quanta farina è necessaria?



Non si può dire così in astratto: dipende dalla consistenza delle patate, ma anche dal  grado di umidità, dal calore delle tue mani, da quanto riesci ad impastare con garbo o quanto invece schiacci e  premi l’impasto. Quindi comincia con un pugno e poi aggiungine man mano. Senti l’impasto come si adagia nel palmo della mano: quando lo senti morbido ma consistente, liscio e pieno, allora va bene.


ooo



E la cottura? Quanti minuti?



Non serve contare i minuti: sono cotti quando vengono a galla. Vedrai, non sono tutti uguali, per alcuni basta un attimo, per altri un po’ di più. Lo sanno da soli, non devi andarli a ripescare tu.


ooo


ooo




(Omaggio ad una nonna che non crede alle ricette semplici, né in cucina né nella vita, ma crede invece all'esperienza, alla passione e... al coraggio di rischiare.)

lunedì 25 settembre 2006

Sicilia, senza vedere il mare

Un taxi nella notte, la porta di un albergo aperta sulla via. Nella camera adattata frettolosamente alle quattro stelle di cui si fregia si apre una finestra su muri umidi e  vicoli impregnati del ricordo del mercato del pesce.


Il sonno si fa strada come un inarrestabile carrarmato fra il vociare incomprensibile che supera gli scuri appena ridipinti.


La mattina porta sole e colazione quasi sulla strada, il lavoro che attende, persone da incontrare. Lì come altrove. Solo un accento più difficile da interpretare. Il panino del pranzo è ripieno di verdure colorate e forti, il sugo cola ovunque. Non è un panino da mangiare in piedi, poco discosto da carte, penne e pc: è un panino da mangiare con le gambe allungate sotto al tavolo, togliendosi la giacca e arrotolandosi le maniche della camicia. Dalla strada viene un’acquolina di carne e un leggero fumo di legna. Ma la sera, uscendo nei vicoli dissestati, costeggiando case scrostate, l’acquolina lascia il posto ad un’inquietudine densa, illuminata da fari che passano lenti, troppo lenti, e da occhi che seguono i nostri passi senza farsi vedere, protetti dalle finestre nere, dai cassonetti troppo pieni, dal salire e scendere dell’acciottolato. Rifugiata fra le lenzuola anonime, ma bianche e sicure, mi chiedo da che parte sarà il mare, dove sarà quella Sicilia immaginata fatta di sapori buoni, di arte antica e di antica galanteria. Qui tutto questo si intravede appena, sbiadito e logorato da questa sporcizia di città, da questa aria carica di malavita. Peccato.  

venerdì 15 settembre 2006

Il mio peggior pregio

Qualche giorno fa un blogger  (Raccontiamoci) ha lanciato una catena della serie “per conoscersi meglio” in cui chiede agli altri blogger di descrivere cinque propri pregi e cinque difetti. Molti hanno risposto sottolineando, con diverse modalità e diverse intonazioni, il fatto che pregi e difetti non sono che le due facce di una stessa medaglia. Io stessa, chiamata in causa, avevo fatto subito a caldo questa precisazione. Ma dal momento che non voglio che mi si accusi di aver usato questa scusa per svicolare dalla richiesta che mi è stata gentilmente rivolta (caratteristica che peraltro si potrebbe annoverare fra i miei difetti), ho deciso di pubblicare una breve riflessione su questo tema.


Spesso si chiede agli altri di descriversi in termini di pregi e di difetti e spesso si tende a valutare le persone, ma anche le situazioni, i luoghi, le esperienze, gli oggetti in termini di pro e contro, più e meno. Eppure siamo tutti ampiamente consapevoli che i pro e contro, i pregi e i difetti non sono che la stessa caratteristica letta in funzione di esigenze, aspettative, obiettivi, contesti diversi.


Allora perché lo facciamo? Perché esprimiamo con così tanta frequenza e persistenza questa esigenza di semplificazione? Da un lato si tratta di un comportamento adattivo tipico dell’essere umano, che induce a cercare delle “scorciatoie” di ragionamento – gli esperti parlano di euristiche – al fine di ridurre la richiesta di attenzione e di concentrazione tipica di un contesto così complesso e mutevole quale quello entro cui l’essere umano deve vivere, muoversi, prendere decisioni. In tal senso è del tutto giustificato il tentativo di facilitarci la vita attraverso l’utilizzo di categorie semplificate ma anche chiare e facilmente accessibili come buono/cattivo, amico/nemico. Anche se avremmo bisogno di un campanellino d’allarme che ci aiuti a capire quando è necessario un supplemento di indagine.


Con questa affermazione mi accingo ad introdurre la seconda parte del mio ragionamento: ovvero, cosa accade quando il processo di categorizzazione si rivolge verso noi stessi? Da un lato probabilmente siamo l’oggetto che abbiamo la possibilità di conoscere più da vicino, quello su cui abbiamo un maggior numero di informazioni, ma anche di cui abbiamo una più netta percezione di quanto sia complicato, mutevole e vario. Quindi la conoscenza di noi stessi non può che passare attraverso un processo di semplificazione piuttosto accentuato, pena l’assoluta involuzione su sé stessi o la narcisistica scelta di dedicarsi esclusivamente all’auto-conoscenza. D’altra parte in questa esperienza in cui siamo contemporaneamente oggetto e soggetto della conoscenza, abbiamo la possibilità di renderci conto in modo tangibile, inequivocabile e volte perfino doloroso, dei limiti del processo di categorizzazione. Sentiamo molto chiaramente quanto di noi resta escluso dal gioco dei pregi e dei difetti.


Quindi riflettere sul modo che ognuno di noi ha di semplificare la conoscenza di sé mi sembra un buon esercizio per attivare il campanellino d’allarme sopra citato. Ovvero, mi sembra una buona modalità per ricordarci, ogni tanto, di quanta parte di conoscenza del mondo tendiamo normalmente ad escludere. E’ utile continuare a farlo, se non vogliamo rimanere paralizzati nell’elaborazione approfondita di tutti gli stimoli che riceviamo, che ci impedirebbe di passare al momento dell’azione e della decisione: ma sarebbe anche utile ricordarsi che lo stiamo facendo, e magari fermare l’automatismo quando può servire.





Ok? Ci sono riuscita? Ho dato un esempio pratico del mio peggior pregio? Facevo sempre così anche agli esami…

venerdì 8 settembre 2006

Niente lifting per me, grazie

Come ogni anno a settembre accendendo la TV rimango colpita dalle varie showgirl e conduttrici (ma anche dai vari showman e conduttori), che tornano dopo l’estate tirate a lucido e “liftate” più che mai. Mi colpiscono i loro visi levigati, artificiali, gli occhi che si fanno sempre più piccoli e sempre meno espressivi, gli zigomi piallati, le labbra rimpolpate… E ogni volta ripenso alla vecchia Minolta di mio padre e al divano di pelle dei miei genitori.


La vecchia Minolta di mio padre andava sempre con lui. La ricordo nello zaino, protetta solo da un caldo maglione, o penzoloni al collo di mio padre, mentre affrontava una discesa sulla neve o si inerpicava fra le rocce delle dolomiti. Ne ha presi di colpi, la vecchia Minolta e si vedono tutti: la ghiera dell’obiettivo è sbeccata, ci sono segni un po’ dappertutto. Ma mio padre diceva: devo averla pronta, se passa uno stambecco…. E così ne ha visti di stambecchi, la vecchia Minolta, e quanti ne ha immortalati! Ed ora viene con me, avvolta in un sacchetto di plastica sul gommone: se salta fuori una balena …. E quando mi dicono “ma se si rovina” rispondo con le stesse parole che usava mio padre: è fatta per essere usata, non per rimanere a casa nella custodia.


Ecco, io voglio essere come la Minolta di mio padre: voglio che intorno ai miei occhi si vedano i segni di tutte le cose che hanno guardato, per le quali si sono sgranati o socchiusi;  voglio che intorno ai miei occhi si vedano i raggi di tutto il sole che li ha rallegrati. Non voglio che i miei occhi siano come quelli di chi ancora non ha visto niente, di chi è stato lasciato a casa nella custodia. Voglio che la mia pelle sia segnata come quella del divano dei miei genitori, su cui sono passati piedi irriverenti di bambini e abbracci e ciotole di pop corn. Voglio una pelle su cui si leggano i segni delle risate, una fronte che si è preoccupata, guance che hanno accolto i baci e il vento. Non voglio una pelle come quella dei divani a cui nessuno ha mai tolto la fodera.


Quindi, niente lifting per me, grazie.

martedì 5 settembre 2006

Karpathos Cocoon

Si aggirano, per le spiagge di Afiartis, a Karpathos, folti gruppetti di anziani signori e signore. Molti di loro sono tedeschi, qualcuno svizzero, altri austriaci. Sono piuttosto socievoli: volentieri si fermano per un saluto o uno scambio di battute: “da dove venite?” “ come va questa mattina?” e via discorrendo. La sera amano riunirsi sulle terrazze riparate dal vento per conversare e bere insieme un boccale di birra o una caraffa di vino locale, ed ogni sera il cerchio delle sedie si allarga per accogliere qualche nuova conoscenza.


La mattina scendono presto a colazione, vestono abiti dimessi: qualcuno non si fa scrupolo a presentarsi davanti al piccolo buffet con i pantaloni del pigiama. Le signore hanno pettinature pratiche  e visi che mostrano le rughe senza false vanità. Gli uomini portano occhiali spessi e abbronzate calvizie; hanno gambe sottili e ciabatte di poco conto. Guardano con distacco, ma senza astio né invidia, il look e le movenze da surfisti all’ultima moda dei giovani che si mescolano fra loro vociando e facendo grossolana mostra delle loro spalle possenti.


Molti di loro hanno mani che tremano un poco, mentre si versano il caffè; quasi tutti hanno schiene curve e andature claudicanti mentre si avviano alla spiaggia. Ma quando si avvicinano alle tavole da surf, con quale elasticità le loro ginocchia si flettono per salire, e con quale sicurezza essi afferrano le vele e inarcano il corpo a cercare il vento! Ecco, in un attimo sono già lontani: la vela tesa, le braccia salde, la tavola che plana docile e lascia dietro di sé un turbinio di schiuma.


Noi, ancora sul bagnasciuga, li guardiamo filare via stupiti e ammirati. E’ una magia? Qual è il vostro segreto? Non avrà per caso a che fare con quegli strani sassi tondeggianti che ho visto pochi metri sotto la superficie del mare, che tanto ricordano quelli di un famoso film di tanti anni fa? Insegnate anche a noi il vostro segreto, che il tempo vola e forse le nostre ossa già scricchiolano un poco…

domenica 3 settembre 2006

Karpathos senza vento

Una mattina ci svegliammo e c’era silenzio. La palma distendeva tranquilla le sue foglie al sole, le bandiere pendevano vuote dai loro supporti e la baia era calma e piatta come una piscina intonsa.


I surfisti si improvvisarono bagnanti, qualcuno organizzò un gioco di bocce nel giardinetto antistante l’hotel, altri ammazzarono il tempo dondolandosi sull’amaca appesa fra gli ulivi antichi.


L’orizzonte verso la terraferma, prima sempre velato da una cortina di sabbia, si era fatto limpido e rivelava nitide le cupole bianche e blu.


Comparvero anche due nuvole, quel giorno, una la mattina e una il pomeriggio: la prima il classico ciuffo di panna, la seconda assai più sfilacciata e vaga.


La notte senza vento fu tormentata di zanzare e le lenzuola si inumidirono del caldo fermo.


Fu nel pomeriggio del secondo giorno senza vento che, ad un tratto, le bandiere ripresero a sventagliare. All’inizio fu questione di pochi minuti, poi tutto tornò calmo, e i surfisti, che avevano subito alzato gli occhi verso il mare, ripresero rassegnati i loro passatempo. Poi le bandiere iniziarono a gonfiarsi con maggior convinzione, e quando il vento riprese a filare, non molto forte, ma con continuità, il bagnasciuga era già fitto di tavole, e in un batter d’occhio la baia fu di nuovo piena di vele.

sabato 2 settembre 2006

Karpathos: Mare, Azzurro e Vento

Per giorni solo lunghe bracciate nell’acqua cristallina, circondata dalle vele e dal cielo.  Null’altro. Mai visto una nuvola in cinque giorni: il cielo così azzurro e piano da risultare perfino monotono, regno incontrastato di un sole implacabile. Il mare trasparente e fresco, popolato di  saraghi e donzelle, da inseguire dietro i grandi sassi, dentro e fuori da buchi e fessure, sogliole scoperte immobili sulle radure di sabbia, una murena guizzante, una seppia che lascia il suo fumetto di inchiostro a mezz’acqua e scappa via, gli occhi vispi di un gigantesco paguro a pochi centimetri dalla mia pancia.


E le mie pinne gialle che sbattono fiere, ora lanciano felici spruzzi verso il cielo, ora lente e costanti muovono appena la superficie mentre io trattengo il fiato e cerco di non spaventare questa carovana di occhiate perché mi tenga un po’ più a lungo con sé. La stampella abbandonata sulla sabbia, gioiosamente inutile.


Fra una nuotata e l’altra le gare di speed surf: velocità, vento e spuma. I corpi tutt’uno con le vele,  piegati a sfiorare l’acqua, i piedi tutt’uno con le tavole, rapidi, sensibili, sicuri. Il vento da incantare, da domare, da incastrare: prendimi con te, fammi volare, portami dove dico io, sopra quest’acqua di smeraldo, più forte, più forte ancora. E accovacciata su un sasso, al limitare della Baia del Diavolo, io, con il mio irrazionale, testardo tentativo di fissare la velocità in un fotogramma.

venerdì 1 settembre 2006

Karpathos: Azzurro e Vento

Vento. Io e la mia stampella, sottili sottili, ritte sulla scaletta e il vento ad abbracciarci e sconquassarci tutte.


Io, la mia stampella e Lui, ad aspettare la nostra valigia azzurra in un aeroporto che sembra l’ingresso di una vecchia scuola elementare, con le panche di legno intorno alle pareti e qualche manifesto appiccicato con lo scotch. Campionato del mondo di speed surf. Eh già.


E poi l’hotel Irini, con signora Irini ad accoglierci: prendisole fiorato, braccia capaci da mamma d’altri tempi e unghie rosso fiamma che scorrono l’elenco delle prenotazioni.


Fuori solo azzurro e vento. Sotto il pavimento a grandi piastrelle bianche e nere.


Alzo lo sguardo per incontrare quello perplesso della signora Irini: “Dobbiamo aspettare mio marito, la prenotazione non risulta”.


Fuori solo azzurro e vento. Dentro, sulle piastrelle bianche e nere, concitate telefonate in greco, dita abbronzate e tozze che sfogliano quaderni, fax, rubriche. Bianchi sorrisi lanciati al di là del bancone come a dire: tranquilli, e intanto arrivano anche bicchieri di succo di frutta e scuse.


Poi eccola la soluzione: la camera del signor Ioannis, il marito. Tranquilli, solo per un paio di notti.


E così eccoci qui: io, la mia stampella e Lui, icone dappertutto, un cero e un cofanetto di conchiglie. A fianco del letto un fucile da caccia e foto di nipoti con la cornice dorata. Il centrino sulla piccola TV e fra l’asse da stiro e il comò una distesa di bagnoschiuma e creme da barba. Nell’armadio i vestiti del signor Ioannis. Fuori solo azzurro e vento, e i mondiali di windsurf, domani.


 

sabato 19 agosto 2006

La storia di Meg

Eccola qui, la storia di Meg, proprio come quella che chiunque avrebbe potuto immaginare: ora non è più solo scritta nei suoi gesti e nelle sue sembianze, ora è qui, sul bancone di questo bar, fra le tazzine del nostro caffè di  metà mattina.


E ora che è qui non sappiamo cosa farcene, io e Meg.


Io non so cosa fare dei suoi occhi gonfi e della sua mascella irrigidita di rabbia, e lei non sa cosa fare dello stereotipo di compassione che trasuda, mio malgrado, dai miei sguardi.


“Pensavo di essere una ragazza intelligente e invece mi sono fatta fregare”:  questa  è la frase che è rimasta appesa fra di noi più a lungo. Di cosa mi stai parlando, Meg?


Mi stai parlando di un investimento sbagliato – pensavo di guadagnarci e invece ci sto perdendo alla grande – o mi stai parlando di una specie di storia d’amore – pensavo volesse amarmi e invece vuole solo far uso di me - ?


E cosa ne faccio io della tua storia, che non è abbastanza originale, per il mondo, da farne un romanzo, o anche solo un aneddoto, e che non è abbastanza consueta, per me, per entrarvi dentro e farne parte?


Eppure, ora, in questa storia c’è anche questa chiacchierata di metà mattina: ora, in questa storia, ci sono anche io.

sabato 12 agosto 2006

Grandi emozioni e piccole disattenzioni

A Goteborg, il portoghese Francis Obikwelu, dopo aver vinto l’oro nei 100 metri con un ottimo tempo, che gli ha consentito di stabilire il record dei campionati europei, si è aggiudicato anche il primo posto nei 200 metri, davanti allo svedese Johan Wissman, secondo con grande sorpresa e grande emozione del pubblico di casa. 


I fotografi svedesi, entusiasti per il risultato del loro compatriota, lo hanno attorniato riempiendolo di attenzioni e di flash, lasciando palesemente in disparte il vincitore della medaglia d’oro.


E’ un piccolo gesto, questo, probabilmente dettato dall’entusiasmo, da un sano tifo per la squadra di casa, e il fatto che Obikwelu sia di origini nigeriane e abbia la pelle nera probabilmente è del tutto casuale, un particolare irrilevante.


E’ vero: si tratta forse di una piccola dis-attenzione, magari anche comprensibile nell’emozione di quell’attimo in cui esplode la gioia per un brillante e inatteso risultato sportivo,  ma trovo molto grave che l’emozione abbia portato dei professionisti a compiere un gesto che definirei di grande scorrettezza e trovo grave che dei professionisti non abbiano capito che quel gesto avrebbe dato adito a ipotesi di razzismo, oltre che di scarsa imparzialità e di scarso senso sportivo da parte del paese che ospita una competizione importante come gli europei di atletica.


Cercherò di ricordarlo, quando vivrò una grande emozione, cercherò di guardarmi intorno e mi chiederò se sto dimenticando qualcosa o qualcuno, perché a certi gesti non c’è rimedio, purtroppo.


Ah, Obikwelu, vai fortissimo.

giovedì 10 agosto 2006

San Lorenzo

Nonni, che sia un destino segreto che mi porta da voi quando cadono le stelle? Senza programmi né piani, senza guardare l’agenda, senza neppure ricordarmi che giorno è, il caso ogni anno a San Lorenzo mi porta da voi. E così le stelle cadenti sono per me cibo di nonna, profumo di lavanda, le posate di quando ero bambina, grilli e abbaiare di cani, la curva della collina sotto a quella della mia schiena, la luna che sorge dietro al bosco delle mie ginocchia graffiate e degli scoiattoli ladri di nocciole, la sorpresa di un muso di volpe al limitare dell’orto. E così il desiderio che esprimo è già un po’ esaudito: questa pace, questo cielo, questa serata, questi nonni.

mercoledì 9 agosto 2006

Un sassolino da togliere - 1

Avrei voglia di scrivere di cose leggere leggere come il venticello che scompiglia il caldo di questo mercoledì, ma ho un sassolino nella testa che vuole essere tolto, e non è di quelli leggeri.

Ogni giorno si  ha notizia di qualche atto criminale commesso da qualche recente ex-galeotto, che ha beneficiato dell’indulto. Queste notizie sono solitamente – apparentemente – utilizzate per sottolineare l’effetto negativo dell’indulto stesso. A me questo sembra, al contrario, un modo per distogliere l’attenzione dal cuore del problema. Il fatto che un neo ex galeotto compia atti criminali è un chiaro sintomo dell’indaguatezza, o dell’insufficienza, della pena carceraria in termini di rieducazione e di re-inserimento sociale. Si porrebbe infatti (e si pone) il medesimo problema anche quando i galeotti sono rilasciati al termine della pena prevista. Su questa constatazione mi sembra che ci sia un accordo piuttosto ampio, anche se poi siamo ancora lontani dall’aver trovato, ma anche dall’aver proposto, soluzioni adeguate. Seguire questo tipo di riflessioni, per quanto urgenti, attuali, importantissime, ci distoglie però del problema indulto, che è un problema, a mio parere, molto grave, dal quale l’opinione pubblica non dovrebbe affatto essere distolta. Provo ad enunciarlo con poche parole, attraverso un semplice esempio. Se non ci fossero abbastanza soldi per avere scuole per tutti renderemmo l’istruzione non più obbligatoria?

Un sassolino da togliere

Avrei voglia di scrivere di cose leggere leggere come il venticello che scompiglia il caldo di questo mercoledì, ma ho un sassolino nella testa che vuole essere tolto, e non è di quelli leggeri.

Ogni giorno si  ha notizia di qualche atto criminale commesso da qualche recente ex-galeotto, che ha beneficiato dell’indulto. Queste notizie sono solitamente – apparentemente – utilizzate per sottolineare l’effetto negativo dell’indulto stesso. A me questo sembra, al contrario, un modo per distogliere l’attenzione dal cuore del problema. Il fatto che un neo ex galeotto compia atti criminali è un chiaro sintomo dell’indaguatezza, o dell’insufficienza, della pena carceraria in termini di rieducazione e di re-inserimento sociale. Si porrebbe infatti (e si pone) il medesimo problema anche quando i galeotti sono rilasciati al termine della pena prevista. Su questa constatazione mi sembra che ci sia un accordo piuttosto ampio, anche se poi siamo ancora lontani dall’aver trovato, ma anche dall’aver proposto, soluzioni adeguate. Seguire questo tipo di riflessioni, per quanto urgenti, attuali, importantissime, ci distoglie però del problema indulto, che è un problema, a mio parere, molto grave, dal quale l’opinione pubblica non dovrebbe affatto essere distolta. Provo ad enunciarlo con poche parole, attraverso un semplice esempio. Se non ci fossero abbastanza soldi per avere scuole per tutti renderemmo l’istruzione non più obbligatoria?

mercoledì 2 agosto 2006

Vacanze fai da te

Sto cercando di organizzare una settimana di vacanza al mare; quest’anno ho alcune esigenze particolari che complicano un poco la ricerca della località e della sistemazione più adatta. Dopo diversi giorni di ricerche matte e disperatissime su internet ho finalmente deciso di rivolgermi ad un’agenzia di viaggi, pensando “sono i consulenti, sapranno aiutarmi”.


In due giorni ho visitato due agenzie. La scena è stata la medesima, talmente identica fin nei minimi particolari da farmi temere una candid camera. La descrivo: entro, una signora sorridente, accaldata e occhialuta fa cenno di avvicinarmi; è palesemente sfinita, alle soglie di una agognata vacanza di ferragosto, ma ancora tenace nel suo “sorridere al cliente”. “Buongiorno, vorrei fare una settimana di vacanza al mare, ho necessità che il viaggio sia comodo e senza troppi trasferimenti, che ci sia una spiaggia di sabbia, con un facile accesso al mare, raggiungibile direttamente dall’hotel. Il  mio fidanzato vorrebbe fare un corso di windsurf avanzato”.


Sguardo interrogativo e breve attesa. Anche io attendo sorridente. Un attimo prima che si rischi l’empasse lei chiede “quindi dove voleva andare?” E io, ancora speranzosa e ai suoi occhi forse vagamente implacabile, “non so, volevo appunto un consiglio”.


Lo sguardo lentissimo scivola sulla distesa di cataloghi in bella mostra alle sue spalle cercando un aiuto, un appiglio, un segno. Niente, nessun segno. Partecipe della sua sofferenza decido di offrirle io l’agognato appiglio. “Non so, avevo pensato alla Grecia…” e lei lo afferra al volo, grata. “Ah, perfetto”, acchiappa il gigantesco raccoglitore dei last minutes e comincia a sfogliarlo accanto a me snocciolando, finalmente a suo agio, cifre,  nomi di isole e di hotel in apparente ordine sparso.


Io sto zitta dieci minuti buoni, poi trovo lo spazio per interromperla: “Senta, io non conosco queste strutture, avrei bisogno di saperne di più per capire se possono andare bene…”. A quel punto sono diventata inequivocabilmente l’incubo pre vacanze. Mi guarda di traverso, lotta con encomiabile tenacia con il desiderio di indicarmi la porta, dà uno sguardo supplichevole al telefono che però rimane ostinatamente muto, poi finalmente torna a rivolgersi al mare patinato di cataloghi che le protegge le spalle, ne sceglie attentamente una decina e, rassegnata, inizia a sfogliare accanto a me “dunque vediamo qui dice piscina, ping pong, gioco bimbi” “sì ma il windsurf?” “mah, non lo dice” “d’accordo, ma è una zona ventosa?” “mah, ventosa non saprei, certo un po’ di vento a volte in Grecia c’è.”


Quindi eccomi qua, di nuovo a casa, a sfogliare la pila di cataloghi che ho ricevuto in dono,  a cercare le informazioni mancanti su Internet, mandando mail ad un numero improponibile di info@ …..


Ma l’aspetto più simpatico della vicenda è che quando, fra un paio di giorni almeno, avrò finito le mie ricerche e individuato la vacanza che fa per me, dovrò tornare in agenzia per prenotare.


Pagando il servizio, naturalmente.

sabato 29 luglio 2006

Altri riflessi di Meg

Meg -  naturalmente non è questo il suo vero nome -  è una donna che una donna come me può incontrare solo casualmente, fra i confini asettici di un luogo in cui le persone transitano sospinte da necessità riabilitative e in cui vivono lunghe ore in un’abitudine tanto quotidiana quanto transitoria.


Meg è una donna straniera e sola, è molto bella e da come si muove si capisce perfettamente quanto ne sia consapevole. Le piace vivere con un certo agio, le piacciono le cose belle, i viaggi e le feste, le piace ricevere regali e indossare vestiti eleganti.


Meg sa bene come procurarsi quello che desidera, e ha capito da molto tempo che ogni cosa ha un prezzo: è una donna intelligente e concreta, e non ama farsi illusioni.


Qualche volta le sembra che il prezzo da pagare sia troppo alto, magari quando si presenta all’ospedale con una spalla fratturata  raccontando di un'improbabile accidentale caduta. E questo le fa incupire lo sguardo.


Anche ad una donna come me qualche volta sembra che il prezzo da pagare sia troppo alto, magari quando ho passato le notti  e i weekend davanti al pc  per completare un lavoro di cui qualcun altro si prende il merito. E questo mi fa incupire lo sguardo.


Qualche volta invece a Meg sembra di vivere in un mondo troppo ipocrita, in cui nessuno vuole ammettere di capire la sua scelta, o la sua vita, e anche questo le fa incupire lo sguardo.


Anche ad una donna come me qualche volta sembra di vivere in un mondo troppo ipocrita, in cui le persone si invitano a cena fra mille moine solo per interesse o per fare bella figura in società. E anche questo mi fa incupire lo sguardo.


Né io né Meg cambieremo le nostre vite per questo. E’ questo che abbiamo in comune? E se è questo, è tanto o poco? Quanto ci assomigliamo, in fin dei conti, io e Meg?

domenica 23 luglio 2006

Ancora un po' di Meg

Meg -  naturalmente non è questo il suo vero nome -  è una donna che una donna come me può incontrare solo casualmente, fra i confini asettici di un luogo in cui le persone transitano sospinte da necessità riabilitative e in cui vivono lunghe ore in un’abitudine tanto quotidiana quanto transitoria.


Meg è una donna che viene da un paese straniero dal quale molte donne fuggono per ritrovarsi a lavorare nei nostri night. Con le sue fattezze e con ogni suo gesto sparge intorno a se lo stereotipo della sua storia ed io sono lì un giorno dopo l’altro a guardarlo, a raccoglierlo: bella donna dell’est fuggita dalla povertà per finire fra le braccia di farabutto che le fa vivere una vita pseudo agiata in cambio di sesso e percosse.


Vedere Meg riflessa accanto a me nello specchio - come me in pantaloncini e maglietta e uguale a me nella smorfia di dolore – mi porta a farmi delle domande, senza giudizi e senza buonismi, non voglio certo fare la retorica della prostituta vittima, ma piuttosto con una strana e cruda sincerità.


Mi chiedo come mi sentirei io se ad un certo punto della mia vita avessi scoperto che facendo danzare i capelli sul sedere potevo far impazzire qualcuno, potevo fargli desiderare il mio corpo fino a romperlo e ferirlo pur di lasciarvi il suo  marchio.


Mi chiedo come mi sentirei se ad un certo punto della mia vita avessi compreso, o accettato, che solo lasciando usare il mio corpo ad un uomo avrei potuto avere, avrei potuto fare, avrei potuto…


E infine mi chiedo: se avessi avuto questa storia come mi sentirei guardando una donna come me riflessa nello specchio? Cosa vorrei da lei?

venerdì 21 luglio 2006

Meg

Ha i capelli neri lunghi fino alla curva dei glutei e una bellezza che non consente di essere ignorata. Ha il portamento di chi si è esercitata fin da piccola davanti allo specchio e non porta il reggiseno. Ha l’accento straniero, arriva senza trucco sul viso ma con unghie laccate e perfette.


Se ne va con il sorriso vago di chi avrebbe potuto dire e non ha detto. A volte si volta per salutarmi e mi lascia in mano uno sguardo che è un amo e un laghetto torbido.


Quello sguardo si aggancia ogni volta al mio istinto di voler bene e ai miei pregiudizi, e ogni volta vorrei chiederle molte cose, ma soprattutto vorrei chiederle: cosa ti aspetti da me?.


Ti aspetti aiuto per uscire da lì, da quel laghetto torbido e da quelle unghie troppo perfette, da quelle magliette firmate che non hai i soldi per comprare, da quella spalla che non ti sei rotta cadendo accidentalmente?


O invece ti aspetti un abbraccio che comprenda, che accetti, che perdoni, che accolga le tue unghie e le tue magliette, le rose e i regali, il modo sapiente in cui muovi i capelli accarezzandoti le natiche e con cui tornerai ancora e ancora e ancora da lui?


Non ti farò mai la domanda. A me stessa  invece chiedo: saprei darti l’una o l’altra cosa?

venerdì 14 luglio 2006

Campione del mondo

Piccoli quadratini azzurri scorrono sotto di me e una lunga striscia blu scuro traccia la mia direzione.


Il braccio si allunga e la mano, con le dita tese a cercare l’angolo giusto, frange l’acqua;  le gambe sciolgono il loro battito lieve, regolare.


Piccoli scintillii danzanti di sole impreziosiscono le mattonelle e riscaldano il braccio che esce dall’acqua.


I polmoni chiedono aria e la testa si volta: per un attimo ho negli occhi nuvole bianche e alberi e poi di nuovo giù nell’azzurro.


Brevi spruzzi lieti accompagnano la bracciata, sempre più tesa, sempre più gioiosa nel suo abbraccio all’acqua;  il battito delle gambe si fa sempre più fluido, lo sento efficace e preciso, indolore.  Le stampelle dimenticate. Sto nuotando.


Oggi campione del mondo sono io. 

mercoledì 5 luglio 2006

Meteopatia?

Capita, a volte, che il cielo abbia proprio il colore del cielo, che il sole abbia il calore del sole, e che un brezza faccia muovere le chiome degli alberi e disegni piccole ombre fresche sulla pelle, spalmando di verde l’estate. In queste giornate a me sembra che ogni cosa sia come era nella mente di chi un giorno la pensò, quando ancora nulla esisteva. Anche io mi sento come dovevo sentirmi un giorno nella mente di chi mi pensò, e so di essere stata pensata felice, forte, in armonia con il mondo. Capita, a volte.  

sabato 1 luglio 2006

Cosa farei a un ragazzino che ruba il cartello segnaletico di stop per provocare un incidente e godersi lo spettacolo

Questa notizia mi ha tanto ricordato quei bambini che credono che il latte si produca direttamente nei cartoni, o che le bistecche escano così, in fettine, da una fabbrica. Cosa c’è, infatti, dietro ad un ragazzino che ruba un cartello segnaletico di stop per provocare un incidente e godersi lo spettacolo? Come se uno scontro fra due veicoli non fosse nulla di diverso da uno scontro fra trenini giocattolo: crash, bum, tutto per terra, ed ora via a rimettere insieme le rotaie, i vagoncini, l’alberello e poi di nuovo  ciuf ciuf….


Cosa c’è dietro ad un ragazzino che non si accontenta di far scontrare i trenini, che non si accontenta degli effetti speciali della multisala di ultima generazione, dove tutto accade come se fosse vero, ma vuole proprio vedere le lamiere contorcersi dal vivo?


Secondo  me c’è prima di tutto l’incredibile, insanabile ignoranza di chi crede che il latte si produca direttamente nei cartoni, di chi crede che le vittime degli incidenti si rialzino e si aggiustino con una gonfiatina come Wil Coyote.


Per questo io porterei questo ragazzino in un reparto di terapia intensiva, ma non come spettatore: lo costringerei ad avere cura dei pazienti, a toccarli, a lavarli, poi lo costringerei a dare brutte notizie ai parenti, a rimanere davanti al dolore senza poter far nulla per alleviarlo, lo porterei anche in un reparto ortopedico, lo costringerei a fare quei gesti tristemente necessari che fanno urlare i pazienti di dolore e poi lo costringerei ad asciugare le lacrime ed il sudore di chi è legato a un letto, sapendo che la sua vita non sarà mai più la stessa.


Perché nessuno lo fa?