E’ appeso ad una gruccia nell’armadio di ogni donna. Di solito è nero ed è
fatto di uno di quei tessuti che finchè non lo guardi da molto vicino non
sapresti dire esattamente cos’è, uno di quelli che puoi indossare quantomeno da
ottobre a maggio, per intenderci. E’ un abito che puoi mettere con le decolletè
o con gli stivali, con la giacca da consulente, con un morbido golfino pelosetto
o solo con una sciarpina di seta. Banale fin che si vuole, mai sbagliato, ti fa
fare la tua discreta figura dal convegno al vernissage passando per ogni sorta
di cena e senza dimenticare il teatro. Se
poi ti riesce di azzeccare l’accessorio, la discreta figura può evolvere in un
successo pieno nel tempo di infilare un paio di orecchini.
Instancabile dispensatore di sicurezza sociale e affidabile
salvatore ad ogni invito imprevisto o repentino cambio di stagione, il segreto del
suo successo - contrariamente a quanto
si possa essere portati a pensare - non
è la versatilità, bensì il mimetismo. Assorbe il tono dell’ambiente e lo riverbera,
così che agli occhi di chi guarda appare infallibilmente in sintonia. E’ il neutro fondale
sui cui lo sguardo appoggia ciò di cui è stato colmato.
Ecco, io vorrei avere, appeso ad una gruccia nel mio repertorio espressivo,
un sorriso che avesse le stesse caratteristiche di questo abito.
Perché può anche capitare, certe volte, di passare in
rassegna tutte le espressioni e di non trovarne nessuna che ci convinca. E dopo
averle gettate alla rinfusa sul letto e sulle seggiole, io resto lì in mutande
e mi dico che vorrei tanto che da un cassetto mi saltasse fuori un sorriso che
non dice niente di sé, se non che c’è.