lunedì 25 settembre 2006

Sicilia, senza vedere il mare

Un taxi nella notte, la porta di un albergo aperta sulla via. Nella camera adattata frettolosamente alle quattro stelle di cui si fregia si apre una finestra su muri umidi e  vicoli impregnati del ricordo del mercato del pesce.


Il sonno si fa strada come un inarrestabile carrarmato fra il vociare incomprensibile che supera gli scuri appena ridipinti.


La mattina porta sole e colazione quasi sulla strada, il lavoro che attende, persone da incontrare. Lì come altrove. Solo un accento più difficile da interpretare. Il panino del pranzo è ripieno di verdure colorate e forti, il sugo cola ovunque. Non è un panino da mangiare in piedi, poco discosto da carte, penne e pc: è un panino da mangiare con le gambe allungate sotto al tavolo, togliendosi la giacca e arrotolandosi le maniche della camicia. Dalla strada viene un’acquolina di carne e un leggero fumo di legna. Ma la sera, uscendo nei vicoli dissestati, costeggiando case scrostate, l’acquolina lascia il posto ad un’inquietudine densa, illuminata da fari che passano lenti, troppo lenti, e da occhi che seguono i nostri passi senza farsi vedere, protetti dalle finestre nere, dai cassonetti troppo pieni, dal salire e scendere dell’acciottolato. Rifugiata fra le lenzuola anonime, ma bianche e sicure, mi chiedo da che parte sarà il mare, dove sarà quella Sicilia immaginata fatta di sapori buoni, di arte antica e di antica galanteria. Qui tutto questo si intravede appena, sbiadito e logorato da questa sporcizia di città, da questa aria carica di malavita. Peccato.  

venerdì 15 settembre 2006

Il mio peggior pregio

Qualche giorno fa un blogger  (Raccontiamoci) ha lanciato una catena della serie “per conoscersi meglio” in cui chiede agli altri blogger di descrivere cinque propri pregi e cinque difetti. Molti hanno risposto sottolineando, con diverse modalità e diverse intonazioni, il fatto che pregi e difetti non sono che le due facce di una stessa medaglia. Io stessa, chiamata in causa, avevo fatto subito a caldo questa precisazione. Ma dal momento che non voglio che mi si accusi di aver usato questa scusa per svicolare dalla richiesta che mi è stata gentilmente rivolta (caratteristica che peraltro si potrebbe annoverare fra i miei difetti), ho deciso di pubblicare una breve riflessione su questo tema.


Spesso si chiede agli altri di descriversi in termini di pregi e di difetti e spesso si tende a valutare le persone, ma anche le situazioni, i luoghi, le esperienze, gli oggetti in termini di pro e contro, più e meno. Eppure siamo tutti ampiamente consapevoli che i pro e contro, i pregi e i difetti non sono che la stessa caratteristica letta in funzione di esigenze, aspettative, obiettivi, contesti diversi.


Allora perché lo facciamo? Perché esprimiamo con così tanta frequenza e persistenza questa esigenza di semplificazione? Da un lato si tratta di un comportamento adattivo tipico dell’essere umano, che induce a cercare delle “scorciatoie” di ragionamento – gli esperti parlano di euristiche – al fine di ridurre la richiesta di attenzione e di concentrazione tipica di un contesto così complesso e mutevole quale quello entro cui l’essere umano deve vivere, muoversi, prendere decisioni. In tal senso è del tutto giustificato il tentativo di facilitarci la vita attraverso l’utilizzo di categorie semplificate ma anche chiare e facilmente accessibili come buono/cattivo, amico/nemico. Anche se avremmo bisogno di un campanellino d’allarme che ci aiuti a capire quando è necessario un supplemento di indagine.


Con questa affermazione mi accingo ad introdurre la seconda parte del mio ragionamento: ovvero, cosa accade quando il processo di categorizzazione si rivolge verso noi stessi? Da un lato probabilmente siamo l’oggetto che abbiamo la possibilità di conoscere più da vicino, quello su cui abbiamo un maggior numero di informazioni, ma anche di cui abbiamo una più netta percezione di quanto sia complicato, mutevole e vario. Quindi la conoscenza di noi stessi non può che passare attraverso un processo di semplificazione piuttosto accentuato, pena l’assoluta involuzione su sé stessi o la narcisistica scelta di dedicarsi esclusivamente all’auto-conoscenza. D’altra parte in questa esperienza in cui siamo contemporaneamente oggetto e soggetto della conoscenza, abbiamo la possibilità di renderci conto in modo tangibile, inequivocabile e volte perfino doloroso, dei limiti del processo di categorizzazione. Sentiamo molto chiaramente quanto di noi resta escluso dal gioco dei pregi e dei difetti.


Quindi riflettere sul modo che ognuno di noi ha di semplificare la conoscenza di sé mi sembra un buon esercizio per attivare il campanellino d’allarme sopra citato. Ovvero, mi sembra una buona modalità per ricordarci, ogni tanto, di quanta parte di conoscenza del mondo tendiamo normalmente ad escludere. E’ utile continuare a farlo, se non vogliamo rimanere paralizzati nell’elaborazione approfondita di tutti gli stimoli che riceviamo, che ci impedirebbe di passare al momento dell’azione e della decisione: ma sarebbe anche utile ricordarsi che lo stiamo facendo, e magari fermare l’automatismo quando può servire.





Ok? Ci sono riuscita? Ho dato un esempio pratico del mio peggior pregio? Facevo sempre così anche agli esami…

venerdì 8 settembre 2006

Niente lifting per me, grazie

Come ogni anno a settembre accendendo la TV rimango colpita dalle varie showgirl e conduttrici (ma anche dai vari showman e conduttori), che tornano dopo l’estate tirate a lucido e “liftate” più che mai. Mi colpiscono i loro visi levigati, artificiali, gli occhi che si fanno sempre più piccoli e sempre meno espressivi, gli zigomi piallati, le labbra rimpolpate… E ogni volta ripenso alla vecchia Minolta di mio padre e al divano di pelle dei miei genitori.


La vecchia Minolta di mio padre andava sempre con lui. La ricordo nello zaino, protetta solo da un caldo maglione, o penzoloni al collo di mio padre, mentre affrontava una discesa sulla neve o si inerpicava fra le rocce delle dolomiti. Ne ha presi di colpi, la vecchia Minolta e si vedono tutti: la ghiera dell’obiettivo è sbeccata, ci sono segni un po’ dappertutto. Ma mio padre diceva: devo averla pronta, se passa uno stambecco…. E così ne ha visti di stambecchi, la vecchia Minolta, e quanti ne ha immortalati! Ed ora viene con me, avvolta in un sacchetto di plastica sul gommone: se salta fuori una balena …. E quando mi dicono “ma se si rovina” rispondo con le stesse parole che usava mio padre: è fatta per essere usata, non per rimanere a casa nella custodia.


Ecco, io voglio essere come la Minolta di mio padre: voglio che intorno ai miei occhi si vedano i segni di tutte le cose che hanno guardato, per le quali si sono sgranati o socchiusi;  voglio che intorno ai miei occhi si vedano i raggi di tutto il sole che li ha rallegrati. Non voglio che i miei occhi siano come quelli di chi ancora non ha visto niente, di chi è stato lasciato a casa nella custodia. Voglio che la mia pelle sia segnata come quella del divano dei miei genitori, su cui sono passati piedi irriverenti di bambini e abbracci e ciotole di pop corn. Voglio una pelle su cui si leggano i segni delle risate, una fronte che si è preoccupata, guance che hanno accolto i baci e il vento. Non voglio una pelle come quella dei divani a cui nessuno ha mai tolto la fodera.


Quindi, niente lifting per me, grazie.

martedì 5 settembre 2006

Karpathos Cocoon

Si aggirano, per le spiagge di Afiartis, a Karpathos, folti gruppetti di anziani signori e signore. Molti di loro sono tedeschi, qualcuno svizzero, altri austriaci. Sono piuttosto socievoli: volentieri si fermano per un saluto o uno scambio di battute: “da dove venite?” “ come va questa mattina?” e via discorrendo. La sera amano riunirsi sulle terrazze riparate dal vento per conversare e bere insieme un boccale di birra o una caraffa di vino locale, ed ogni sera il cerchio delle sedie si allarga per accogliere qualche nuova conoscenza.


La mattina scendono presto a colazione, vestono abiti dimessi: qualcuno non si fa scrupolo a presentarsi davanti al piccolo buffet con i pantaloni del pigiama. Le signore hanno pettinature pratiche  e visi che mostrano le rughe senza false vanità. Gli uomini portano occhiali spessi e abbronzate calvizie; hanno gambe sottili e ciabatte di poco conto. Guardano con distacco, ma senza astio né invidia, il look e le movenze da surfisti all’ultima moda dei giovani che si mescolano fra loro vociando e facendo grossolana mostra delle loro spalle possenti.


Molti di loro hanno mani che tremano un poco, mentre si versano il caffè; quasi tutti hanno schiene curve e andature claudicanti mentre si avviano alla spiaggia. Ma quando si avvicinano alle tavole da surf, con quale elasticità le loro ginocchia si flettono per salire, e con quale sicurezza essi afferrano le vele e inarcano il corpo a cercare il vento! Ecco, in un attimo sono già lontani: la vela tesa, le braccia salde, la tavola che plana docile e lascia dietro di sé un turbinio di schiuma.


Noi, ancora sul bagnasciuga, li guardiamo filare via stupiti e ammirati. E’ una magia? Qual è il vostro segreto? Non avrà per caso a che fare con quegli strani sassi tondeggianti che ho visto pochi metri sotto la superficie del mare, che tanto ricordano quelli di un famoso film di tanti anni fa? Insegnate anche a noi il vostro segreto, che il tempo vola e forse le nostre ossa già scricchiolano un poco…

domenica 3 settembre 2006

Karpathos senza vento

Una mattina ci svegliammo e c’era silenzio. La palma distendeva tranquilla le sue foglie al sole, le bandiere pendevano vuote dai loro supporti e la baia era calma e piatta come una piscina intonsa.


I surfisti si improvvisarono bagnanti, qualcuno organizzò un gioco di bocce nel giardinetto antistante l’hotel, altri ammazzarono il tempo dondolandosi sull’amaca appesa fra gli ulivi antichi.


L’orizzonte verso la terraferma, prima sempre velato da una cortina di sabbia, si era fatto limpido e rivelava nitide le cupole bianche e blu.


Comparvero anche due nuvole, quel giorno, una la mattina e una il pomeriggio: la prima il classico ciuffo di panna, la seconda assai più sfilacciata e vaga.


La notte senza vento fu tormentata di zanzare e le lenzuola si inumidirono del caldo fermo.


Fu nel pomeriggio del secondo giorno senza vento che, ad un tratto, le bandiere ripresero a sventagliare. All’inizio fu questione di pochi minuti, poi tutto tornò calmo, e i surfisti, che avevano subito alzato gli occhi verso il mare, ripresero rassegnati i loro passatempo. Poi le bandiere iniziarono a gonfiarsi con maggior convinzione, e quando il vento riprese a filare, non molto forte, ma con continuità, il bagnasciuga era già fitto di tavole, e in un batter d’occhio la baia fu di nuovo piena di vele.

sabato 2 settembre 2006

Karpathos: Mare, Azzurro e Vento

Per giorni solo lunghe bracciate nell’acqua cristallina, circondata dalle vele e dal cielo.  Null’altro. Mai visto una nuvola in cinque giorni: il cielo così azzurro e piano da risultare perfino monotono, regno incontrastato di un sole implacabile. Il mare trasparente e fresco, popolato di  saraghi e donzelle, da inseguire dietro i grandi sassi, dentro e fuori da buchi e fessure, sogliole scoperte immobili sulle radure di sabbia, una murena guizzante, una seppia che lascia il suo fumetto di inchiostro a mezz’acqua e scappa via, gli occhi vispi di un gigantesco paguro a pochi centimetri dalla mia pancia.


E le mie pinne gialle che sbattono fiere, ora lanciano felici spruzzi verso il cielo, ora lente e costanti muovono appena la superficie mentre io trattengo il fiato e cerco di non spaventare questa carovana di occhiate perché mi tenga un po’ più a lungo con sé. La stampella abbandonata sulla sabbia, gioiosamente inutile.


Fra una nuotata e l’altra le gare di speed surf: velocità, vento e spuma. I corpi tutt’uno con le vele,  piegati a sfiorare l’acqua, i piedi tutt’uno con le tavole, rapidi, sensibili, sicuri. Il vento da incantare, da domare, da incastrare: prendimi con te, fammi volare, portami dove dico io, sopra quest’acqua di smeraldo, più forte, più forte ancora. E accovacciata su un sasso, al limitare della Baia del Diavolo, io, con il mio irrazionale, testardo tentativo di fissare la velocità in un fotogramma.

venerdì 1 settembre 2006

Karpathos: Azzurro e Vento

Vento. Io e la mia stampella, sottili sottili, ritte sulla scaletta e il vento ad abbracciarci e sconquassarci tutte.


Io, la mia stampella e Lui, ad aspettare la nostra valigia azzurra in un aeroporto che sembra l’ingresso di una vecchia scuola elementare, con le panche di legno intorno alle pareti e qualche manifesto appiccicato con lo scotch. Campionato del mondo di speed surf. Eh già.


E poi l’hotel Irini, con signora Irini ad accoglierci: prendisole fiorato, braccia capaci da mamma d’altri tempi e unghie rosso fiamma che scorrono l’elenco delle prenotazioni.


Fuori solo azzurro e vento. Sotto il pavimento a grandi piastrelle bianche e nere.


Alzo lo sguardo per incontrare quello perplesso della signora Irini: “Dobbiamo aspettare mio marito, la prenotazione non risulta”.


Fuori solo azzurro e vento. Dentro, sulle piastrelle bianche e nere, concitate telefonate in greco, dita abbronzate e tozze che sfogliano quaderni, fax, rubriche. Bianchi sorrisi lanciati al di là del bancone come a dire: tranquilli, e intanto arrivano anche bicchieri di succo di frutta e scuse.


Poi eccola la soluzione: la camera del signor Ioannis, il marito. Tranquilli, solo per un paio di notti.


E così eccoci qui: io, la mia stampella e Lui, icone dappertutto, un cero e un cofanetto di conchiglie. A fianco del letto un fucile da caccia e foto di nipoti con la cornice dorata. Il centrino sulla piccola TV e fra l’asse da stiro e il comò una distesa di bagnoschiuma e creme da barba. Nell’armadio i vestiti del signor Ioannis. Fuori solo azzurro e vento, e i mondiali di windsurf, domani.