Vagone della metropolitana, ore 19 di un torrido giorno feriale.
Un ex muratore, un professore di sociologia del diritto e un commesso di Emporio Armani, seduti fianco a fianco come le tre civette di quel famoso comò, ridono sotto i baffi. Intendo dire che cercano faticosamente di dissimulare il moto irrefrenabile di quei muscoli facciali che ci illudiamo siano sotto il nostro controllo volontario ma ai quali la risata sfugge da tutte la parti come acqua sotto pressione sparata fuori dal rubinetto nonostante il pollice malamente infilato nel buco.
Mentre sento che anche i miei muscoli facciali, solleticati, iniziano a stiracchiarsi, seguo la direzione del loro sguardo e scopro la fonte di tanta repressa ilarità: due ragazzine -zainetto, cerchietto con la stella e all stars- ridono a crepapelle. Ridono di quella risata che porta via, di quella risata che non ha più niente a che vedere con il motivo che l’ha scatenata, di quella risata che è come acqua che rotola fra i sassi senza più memoria della spinta propulsiva della sorgente, ma rotola verso valle trascinando tutto e sé stessa e godendo solo della sua forza e del suo capriolare.
Mi accorgo di quanto è evidente che anche io sono sulla soglia della risata dallo sguardo della signora con le borse della spesa, che mi fissa e sente gli angoli della bocca sfarfallare verso l’alto senza controllo.
Ecco: fra un attimo tutto il vagone starà ridendo sgangheratamente. Ognuno di noi, chiusi in questa scatola viaggiante, sarà causa ed effetto di una risata reciproca e contagiosa, in una circolarità senza significato alcuno come senza significato alcuno è il fatto di essere saliti sullo stesso treno, quest’oggi, in questa città.
Avrebbe potuto esserci una bomba, invece è scoppiata una risata.