mercoledì 19 dicembre 2012

Sulla vecchia poltrona, nella camera in fondo al corridoio

Stuzzicata e lusingata da un nonno che si appresta a   - SSTH, Prishilla!! – va bè, insomma, avrete capito,  il punto è che l’altra sera mi son chiesta cosa vorrebbe sentirsi dire un bimbo che, dopo la lunga cena e le briciole del pandoro, sentisse uno scampanellio e trovasse seduto, sulla vecchia poltrona della camera in fondo al corridoio, il signore dalla barba bianca e dal vestito rosso.
 
Cosa vorrebbe sentirsi dire, una volta seduto sulle sue ginocchia, vibrante di emozione? Vorrebbe sentir parlare di renne, folletti e stelle? Forse, un poco. Vorrebbe sentire che la sua letterina è stata gradita? Può darsi, se fosse un bimbo attento alle parole e bisognoso di lodi come certe persone che conosco. Ma io credo che, più di tutto, quel bimbo vorrebbe sapere se davvero quegli occhi azzurri possono leggere i suoi sogni. Perché di Babbi Natale sono pieni i corridoi di tutti i centri commerciali: se sei quello vero, fatti riconoscere.
 
Come ti chiami? – Prishilla – Oh oh oh, Prishilla.  Quella che non può dormire se non ha letto una fiaba. Sei cresciuta. Hai tanti desideri, quest’anno. Ma sei stata brava? – Sìsì. Cioè, insomma. – Ecco, insomma mi sembra più giusto. Dunque, dunque vediamo. Mi sembrava che ci fosse qualcosa per te, sulla slitta. Vuoi vedere che mi son sbagliato?

Un po’ di suspence ci vuole, sempre.
Ah no, ecco qua. I folletti han lavorato per te, Prishilla, fai tesoro di questi giochi, son preziosi.
Ecco sì, perché non vale se Babbo Natale dice: figurati, cara, giusto un pensierino. Magari ti vien pure il sospetto che abbia riciclato qualche trabiccolo dell’anno scorso. I bimbi vogliono sentirsi dire che dietro un regalo c’è un folletto che ha martellato e girato viti e attaccato braccia e gambe e capelli e che tutto questo è stato fatto per lui.
Dunque: fai tesoro di questi giochi, perché son desideri avverati, oltre che bambole e videogame.
E poi vorrei, vorrei, vorrei … ecco: vorrei che Babbo Natale mi salutasse chiamandomi per nome e seminando solo per me una traccia di fiducia.
Ciao Prishilla, aspetto la tua lettera, l’anno prossimo. Scrivimi cose belle, e fai la brava.  Soprattutto, mi raccomando, non dir bugie e stai un po’ zitta, qualche volta.
L’anno prossimo. Cose belle. Potrò essere brava. Lo dice lui. Lui che senza le nostre letterine sarebbe solo il testimonial più famoso del secolo.

mercoledì 12 dicembre 2012

Cara Santa Lucia,

mi ero riproposta di scriverti una letterina lieve e ironica, che come al solito si sarebbe conclusa con un bieco tentativo di accattivarmi la tua benevolenza, farmi perdonare tutto quel fango che anche quest’anno mi è rimasto attaccato alle scarpe e sciorinare la mia lista dei desideri.

Carta e penna alla mano però le parole che mi son venute incontro sono altre. Forse perchè – alla buonora, dirai tu – finalmente mi sono resa conto che tu il tuo regalo lo porti sempre. No aspetta, non fraintendere, non dico che tanto sei buona e quindi perdoni – sì certo nel mio caso è anche così – ma anche qualora tu davvero avverassi la minaccia e nelle mie scarpette infilassi solo carbone (o un calabrone, come direbbe una bimba – buona – che conosco), bè anche in quel caso tu avresti portato il non plus ultra dei regali. Che è la magia.

E quanto deve essere faticoso, Santa Lucia cara. Anno dopo anno, tener viva la fiamma e portarla in tutte quelle case, che ogni anno sembrano sempre di più, e più alte, con tutte quelle finestre. Mamma mia che stanchezza.  E andar d’accordo con l’asino, che, per l’amor del cielo, è un grande aiuto, ma ha le sue manie e poi bisogna continuamente dargli da mangiare.  Certo anche per lui non deve essere una passeggiata, tutti questi anni in giro con te, carico come un somaro,  proprio nella notte più fredda e più buia dell’anno. Non so quante volte ci avrà provato, a convincerti ad anticipare alla primavera, non so a San Giovanni, quando le notti sono tiepide e chiare. Ma tu no, ostinata. Dici che è proprio quando le notti sono nere e fredde da far gocciolare il naso, che i bambini hanno bisogno di magia. E l’asino alza gli occhi al cielo. Poi dici che a San Giovanni son capaci tutti, bastano quattro lucciole e la magia è fatta, ma quando l’inverno ci prende come una paura quelle sciocchine son sparite tutte, e bisogna ben che qualcuno vada di casa in casa ad accendere le stelle. Allora lui, punto sull’orgoglio, si carica i sacchi sulla groppa ed è pronto per partire.

E dopo aver fatto questo pensiero, Santa Lucia, il mio esame di coscienza abbellito dai buoni propositi mi è sembrato una cosetta sciocca, forse anche un po’ meschina. Mi son detta che luciderò le scarpe in silenzio quest’anno e casomai, volevo dirti, se mi fai uno squillo vi vengo incontro all’inizio della mia via:  so che ad accender le stelle non imparerò mai, ma magari potrei aiutarvi a distribuirle, almeno nel mio palazzo.   

....

Ecco lo sapevo, l’asino dice che sto provando a farmi perdonare le mie manchevolezze e che posso anche piantarla perché quest’anno un calabrone non me lo leva nessuno. Secondo te, Santa Lucia, se gli porto il vin brulè al posto del latte caldo, lo conquisto?

domenica 9 dicembre 2012

Oltre lo specchio

 

‘Potrebbe mentire’, dici.
Certo, è probabile.
 Le persone mentono, tutti mentiamo, continuamente. E nelle bugie che scegliamo di dire sveliamo chi siamo: non riveliamo certo noi stessi rispecchiando la realtà.
 

domenica 2 dicembre 2012

Liliana e il compleanno


Era una che dava i nomi alle piante. Il che la dice lunga, ma comunque. Comunque questa in particolare si chiamava Liliana ed era giunta a casa sua, sotto l'ombrello del fiorista claudicante, per festeggiare il suo compleanno. Era un'orchidea, bianca e spumeggiante, carica di fiori. Una di quelle orchidee che non mettono soggezione, che sfumano la bellezza in un aura smemorata e rarefatta che si fa subito amare.
Forse anche per questo, la prima cosa che disse quando l'ebbe in mano non fu 'dove posso metterla, perchè tutti la vedano', o 'perchè abbellisca questa casa', quello che disse, invece,  fu: 'dove posso metterla, perchè abbia tanta luce'. E ci fu qualcuno, quando lo disse, che si augurò che Liliana vivesse a lungo, e a lungo le ricordasse che cercare la luce é un istinto, un istinto buono. A qualsiasi età.

lunedì 26 novembre 2012

Quando


Quando c’è stato il sorteggio dei super-poteri e io ho pescato la Felicità ho pensato: bah, almeno è facile. Ma non avevo capito proprio niente.’

domenica 18 novembre 2012

Fino a quel momento


La chiesa era in penombra e i banchi tutti occupati. Il microfono amplificava l’inutilità delle parole e i miei occhi vagavano sulle spalle dei cappotti, qui riuniti in questo giorno. Il tremolio delle candele e l’eco della cupola rendevano plausibile l’idea che la preghiera mormorata qui ed ora compisse il suo lungo viaggio verso il cuore del dolore.
Lo vedevo avvolto in un cappotto troppo largo, il cuore del dolore, protetto da spalle curve e da una testa china, come nel tentativo di dargli un po’ di sollievo dai venti. Lo vedevo e chiedevo per lui coraggio e forza, e speranza e fiducia.
Poi la preghiera mormorata giunse al suo amen e tacque, e i cappotti si scomposero nel segno della croce. Quel cappotto troppo largo si girò verso il fondo della chiesa e verso di me e io di quel dolore vidi il volto. Allora chiesi un’altra cosa, una cosa che fino a quel momento non avevo capito affatto: l’oblio.

lunedì 12 novembre 2012

San Martino

Patate, tante. Farina, quanto basta. Un uovo. Sempre uno.
La ricetta più arbitraria delle tradizioni familiari. Come a ricordarci che ricette non ce ne sono e che per fare buoni gnocchi bisogna essere stati bambini che hanno infilato l'indice e il medio nel cubetto paffuto e lo hanno rotolato allegramente nella farina, mentre mamme, nonne o zie sorvegliavano attente, senza smettere di sagomare serpentelli e ridurli a tocchetti con spietato ritmico batter di coltello. Bisogna aver rubato un gnocco dal tagliere infarinato approfittando lesti di una mescolata al soffritto, per fare buoni gnocchi: non è questione di ricette.
Ma non c'è da preoccuparsi: non è mai troppo tardi per essere quei bambini, per una sera almeno.

lunedì 5 novembre 2012

.....di amarti e onorarti.....


Era da un bel pezzo che mi chiedevo cosa volesse poi dire, in pratica, quell’’onorarti tutti i giorni della mia vita’ che ho sentito pronunciare a decine di spose e di sposi a vari stadi di commozione, estasi o puro panico.
 Me lo chiedevo da bambina, quando tutta la liturgia era circonfusa da un'aura fiabesca in cui ogni parola aveva un significato arcano – tipo quella Rosanna nell’alto dei cieli che per anni mi sono immaginata volteggiare fra le nubi al colmo della serenità, tanto per intenderci.
Me lo chiedevo da adolescente, tra un commento sull’abito e un aggiustatina alla frangia, e poi qualche anno più tardi, quando le spose hanno iniziato ad essere le mie amiche e le volte delle chiese hanno iniziato a risuonare di contrastanti, colorate e sfarfallanti emozioni. 
Me lo chiedevo quando ai matrimoni degli amici ho iniziato ad avere Lui accanto, seduto scomodo nel banco troppo stretto, e stavo attenta attenta a non guardarlo nel momento delle promesse - e naturalmente me lo sono chiesta quando in quello scrigno qualcosa ha iniziato a trasformarsi e quando ho pensato ‘lo voglio’.
 
A quel punto però il grillo parlante che abita poco sopra al mio orecchio destro mi ha intimato di cercare una risposta con maggior convinzione e così ho chiesto in giro. Alle mogli ovviamente.
Qualcuna rispondeva che voleva dire non contraddire il marito in pubblico (ed in quel caso sarebbe stato per me bastevole motivo di rinuncia a tutta quanta la faccenda), altre sostenevano che significava accoglierlo ogni sera sorridente e festosa con una buona cena in forno e tutto il resto (e anche in questa accezione scampanio di allarme e proteste a profusione), ma la maggior parte di loro concordava sul fatto che fosse ampiamente sufficiente come promessa quella della fedeltà nella gioia e nel dolore e via discorrendo e che comunque ‘amarsi’ racchiudeva in sé tutto il resto, dunque non c’era da preoccuparsi. 
A me sembrava che questo nascondesse una pericolosa leggerezza. Stavo per prometterlo anche io, non potevo accontentarmi. Allora rivoltavo la domanda e chiedevo loro quando si sentivano ‘onorate’ dai loro mariti. A quel punto solitamente iniziavano a parlare di ricette o dell’ultimo film visto al cinema.
Fu così che finii per farmene una ragione e promettere, come una scriteriata qualunque,  che avrei onorato un uomo ogni giorno della mia vita senza avere idea di cosa significasse in pratica –avendo però, per sicurezza,  ben chiarito a tu per tu con l’interessato che non gli avrei dato necessariamente ragione né in pubblico né in privato e che non avrei cucinato leccornie ogni sera.  Poi nei mesi e negli anni a venire ho accantonato il problema, cullandomi nella constatazione che Lui non pareva lamentare manchevolezze in questo senso.

Finchè casualmente l’altro giorno non capito sulla Treccani e alla voce Onorare, sign.2  leggo ‘rendere onorato, costituire motivo di onore: un bel morir tutta la vita onora..’ ecc ecc. In un lampo mi torna in mente tutta la mia ricerca vana e resto interdetta. Rileggo. Lentamente. Santo cielo. Vuoi vedere che quell’’onorarti’ che ho promesso non ha niente a che vedere col blandirti o festeggiarti o incensarti ma significa che devo ‘renderti fiero di me’?  Ho promesso di fare in modo che tu possa sentirti onorato dell’essere mio marito, ogni giorno della mia vita. Ogni giorno dovresti sentire una gran voglia di spalancare porte e finestre e dire ‘ehi ragazzi, vi rendete conto che fortuna che ho? Questa è mia moglie!’ Ogni giorno?? Sì. Ok. Mi serve un attimo per riprendermi.  Ma intanto una domanda: com’è che di tutte quelle mogli che ho interpellato ... nessuna che abbia avuto la compiacenza di avvertirmi?!

lunedì 29 ottobre 2012

'nascosto in ogni uomo'

'Io penso che il genio, nascosto in ogni uomo, sia un forellino minuscolo attraverso il quale si vede Dio. Solo che pochi riescono a scoprire in sè questo spiraglio. Gli altri barcollano come gattini ciechi, e non trovano nulla. Se invece il miracolo si compie, allora uno capisce subito: 'ecco perchè sono venuto al mondo!' e poi vive tranquillo e sicuro, senza più cercare conferme. E questo è il genio. Mentre il talento è molto più frequente. E' il caso delle persone che non hanno trovato questa magica finestrella ma ci sono andate vicino e si nutrono del riflesso di quella luce meravigliosa'
(B. Akunin)

lunedì 22 ottobre 2012

Senza Titolo


Era sospesa, come una nube all’alba. La luce sarebbe arrivata, a decretare il colore di questa giornata. Ad addensarla come un gomitolo grigio stretto in un pugno sudato o a disperderla in mille fili di sogni sottili. La luce ancora non era arrivata, del vento neppure il profumo. Come una nube all’alba, tratteneva il respiro.

lunedì 15 ottobre 2012

AAA Word-Sitter cercasi


Non rimane, talvolta, che mandare le parole a giocare in cortile. Forza, andate fuori a giocare, che non è posto per voi qui: lasciateci tranquilli a finir di mangiare. Perché è sicuro che se restano, con una pallonata, una spinta o una corsa finiscono per fare un guaio. E non crediate – io non ci casco più – che solo perché ti dicono tranquilla, son le stoviglie di tutti i giorni, sia proprio vero che poi basti un colpo di paletta per metter tutto in pattumiera e avanti come se niente fosse. Fossero pure i bicchieri di carta, certe volte è meglio mandar le parole a giocare in cortile, perché di sicuro va a finire che se restano rovesciano il vino rosso su qualche vestito nuovo.
Ed è ecco che ci ero riuscita, a mandarle in cortile, ero lì che sorridevo muta e composta e ...bang: il pallone entra dalla finestra dritto sulla tavola.
Devo farmene una ragione, l’unica è lasciarle a casa. Conoscete una word-sitter?

lunedì 8 ottobre 2012

Ho aspettato


Mi hanno fatto spogliare e infilare un camice usa e getta verde sala operatoria, mi hanno fatto togliere l’orologio e gli occhiali e mi hanno detto aspetti qua. La porta si è aperta su uno stanzino di un metro per un metro che conteneva solo una piccola panca e poi si è richiusa. Mi sono seduta, ho allungato i piedi e ho aspettato. Ho aspettato. Nessuna scritta sui muri, nessun passante da osservare. Ho aspettato. Mi sono detta ma quanto ci vuole e poi ho aspettato ancora. Fuori dallo stanzino solo rumori metallici, ronzii di apparecchiature, clangori vari. Ho aspettato e ho avuto freddo. Ho riepilogato le cose da fare e quelle fatte. La lista della spesa. Gli abiti da indossare domani. Ho aspettato. Ho controllato lo stato delle mie unghie. Ho tentato anche di controllare lo stato delle mie doppie punte ma senza occhiali mi rimanevano dei dubbi. Ho aspettato.  Quando l’infermiera è tornata a prendermi per la risonanza magnetica mi sono detta che sì, la deprivazione sensoriale crea mostri. Non appena ho riavuto gli occhiali ho controllato che non mi fosse già spuntato un torvo sguardo folle. 
  

sabato 29 settembre 2012

Il volo di Mattia

Capita, a certi bambini, di fare un viaggio speciale. Arrivano al check in nel giorno stabilito e invece della cicogna d’ordinanza trovano una nonna. Il che è un po’ come quando hai prenotato un viaggio in classe turistica e ti ritrovi con un upgrade in first class. O meglio in una first class super ultra lusso, perché fare il viaggio fra le braccia di una nonna è proprio tutto un altro viaggiare rispetto al fazzoletto appeso al becco di una cicogna. Significa, tanto per dirne una, arrivare sulla terra già ben provvisti di dolcezza e avendo già sentito nelle orecchie molte cose. Cose come lo stormire delle foglie, per esempio, e il rumore del mare e il crepitare di un camino e forse, chissà,  anche il battito ritmico di una palla da tennis ben giocata.

domenica 23 settembre 2012

Ma se

 
Ma se i colori e la luce dorata dell'autunno mi venissero incontro in primavera,
mi farebbero lo stesso effetto?

sabato 15 settembre 2012

FotoGrafia

Il mio riflesso, nel finestrino, sbadiglia. Ho una storia abbandonata sulle ginocchia e ciocche di progetti sfilacciati intorno al viso. Anche la pioggia è cessata. Ha lasciato laghi immoti lungo le strade e foglie grevi. Solo il volant della mia sciarpa estiva risplende chiaro e nitido, vispo. Sembra una mano che saluta, dal finestrino, l'autunno venuto a prenderlo alla stazione.

domenica 9 settembre 2012

C'era una volta


Ero salita sul treno proveniente da Bari irritata per la lunga attesa sul binario, per il caldo che stupidamente non avevo preventivato, per la presentazione che non avevo finito quando sarebbe stato il momento di farlo e per quella telefonata in cui non avevo – come al solito – trovato il coraggio di dire un semplicissimo no. Avvicinandomi alla carrozza numero 4 sentivo la presentazione da finire che mi bruciava nella borsa e il risultato del calcolo mentale che avevo appena concluso che mi lampeggiava sulla fronte: dovevo sbrigarmi se volevo finirla prima di arrivare a Milano. Quindi stavo già guardando spazientita il signore col marsupio che non trovava il pulsante per aprire la porta, quando finalmente la porta si era aperta.

Vociare, borse, valigie, sacchetti in ogni dove, odore di frittata e di frutta di stagione. Presi un respiro profondo e mi tappai mentalmente il naso nel tentativo di farmi largo verso il mio posto prenotato attraversando indenne quella sorta di gita scolastica, in cui però l’età media era di circa 78 anni. I miei vicini di posto, devo ammetterlo, mi accolsero con benevolenza, pronti ad introdurmi nell’allegra comitiva che – a quanto pare – aveva ben sfruttato il viaggio da Bari per fare amicizia. Fu però loro ampiamente sufficiente lo sguardo con cui attesi che liberassero il mio sedile da un fascio di riviste di gossip, due pericolose scatole di polistirolo gorgoglianti e quattro sospette palline di carta stagnola, per rendersi conto che non avrei contribuito granchè alla conversazione. Perfino la signora col golfino all’uncinetto che continuava a ripetere speranzosa ‘fa caldo anche qua, eh’ capì che non saremmo andate oltre un cenno d’assenso quando vide la rapidità con cui accesi il netbook, collocai il blackberry sul tavolino e mi rivolsi al finestrino.
Lo sforzo per isolarmi dagli scambi di grappoli di uva, biscotti, barzellette e aneddoti su ospedali, malattie e vacanze alpitour e riuscire a finire la presentazione, pur essendo notevole,  non mi impedì però di mantenere la concentrazione per scavalcare la bolgia bofonchiando buongiorno e farmi trovare pronta alla discesa prima che la masnada si mettesse in moto. Il telefono però squillò mentre il treno si fermava e io risposi mentre con l’altra mano aprivo la porta e coi piedi già iniziavo a scendere le scale. La custodia del telefono mi sfuggì e volò, lenta ma inesorabile, sul binario. Proprio sotto ai gradini della carrozza numero 4. Irraggiungibile per il mio ginocchio zoppo, e probabilmente anche per il mio tailleur. Rimasi lì un attimo, interdetta, mentre la masnada sfilava fuori dal treno con borse e pacchetti. Stavo per andarmene aggiungendo questo contrattempo alla lista della giornataccia quando la scena improvvisamente rallentò.

Mi era arrivato accanto un ragazzino, con i jeans sporchi di viaggio a metà sedere e un grande zaino sulle spalle. Guardò nella direzione dei miei occhi e poi cercò lo sguardo dell’uomo che lo accompagnava. Altro grande zaino, pantaloni da viaggio e gli stessi capelli color miele del ragazzino. Gli occhi del figlio chiesero, gli occhi del padre assentirono. Stavo per dire ‘grazie non importa’ ma in una frazione di secondo il ragazzino era già inginocchiato sul binario e poi mi porgeva la custodia, lo zaino su una spalla sola e due occhi così trasparenti e puliti che in quel momento la scena si fermò.

Mi sentii come se quegli occhi avessero preso in mano un gomitolo nero che stava da qualche parte dentro di me. Sentii una vergogna così profonda per quel gomitolo nero, ma anche una gratitudine così chiara da non ammettere sensi di colpa. Sussurrai un grazie che avrebbe voluto aggiungere qualcosa -  ma cosa? - e intanto lui aveva già ripreso a camminare lungo il binario e mi aveva risposto un prego così soddisfatto e fiducioso che non poteva lasciarmi dentro che una scia di luce. Come un dito su un vetro appannato.  Li seguii per un tratto, verso l’uscita. Il padre aveva messo una mano sulla spalla del figlio, due zaini sporchi di ritorno da un’avventura. L’ho immaginato raccontare ad una mamma attenta. L’ho immaginato dire ‘e poi c’era una signora che non sapeva come fare perché le era caduta una cosa sul binario’ e una parte non tanto piccola di me avrebbe voluto non essere quella signora.

sabato 1 settembre 2012

Settembre, andiamo!

Si dice che ogni crisi contenga in sé l’opportunità di un rinnovamento. Andrà certamente sprecata, però, questa opportunità, se non cova da qualche parte un progetto, un desiderio, un voler essere.
Sotto la cenere di questa Crisi mi pare nascondersi soprattutto la fantasia proibita di una resa. A tratti compare una tenace volontà di sopravvivenza, ma pare completamente mancare il frugare di quell’unica domanda che a mio avviso potrebbe svegliare nel bruco raggrinzito l’idea della farfalla: cosa vorremmo essere?
Sento solo l'irrequietezza accidiosa e cupa dei bambini che guardano cadere dalla finestra la prima pioggia d’autunno. Settembre, andiamo: è tempo di migrare…..

domenica 26 agosto 2012

In viaggio

Certi genitori diventano genitori dopo averlo desiderato a lungo. Anche certi figli diventano figli dopo averlo desiderato a lungo.
Ci sono due fratelli, per esempio, che la settimana prossima diventeranno figli. Li immagino rientrare in macchina, stasera, verso il luogo che li ha accolti e in cui vivranno ancora per i prossimi sette giorni.  Li immagino mentre il buio incerto che succede al tramonto avvolgerà l’impressione lasciata nei loro occhi bambini da un uomo e da una donna che hanno risposto sì, quando un giudice ha chiesto loro: li volete? Li vogliamo.
Li immagino stringere i loro pelouches, questa sera, rientrando in macchina, li immagino chiedersi in un silenzio immenso: li vogliamo? Mentre sfumano fuori dal finestrino i ricordi di una cameretta intravista, di una tavola apparecchiata per quattro, di una bicicletta nell’angolo di un cortile, di un profumo che sfiora la guance, i capelli.
Mi chiedo se tutti i bimbi, durante quel viaggio, si stringono al collo della cicogna e cercano una risposta nei suoi occhi di vetro mentre si chiedono ‘sarò felice?’ E la immagino, la cicogna, che annuisce, dolcemente, mentre le ali perdono un battito, solo uno, poi la immagino riprendere il  volo, contegnosa, rasente l’autostrada.

sabato 11 agosto 2012

Nello spogliatoio delle femmine

-  Nonnaaa?
- …..
- Noonnaaa??  …. NOOONNAAAA?!!!
La nonna si precipita fuori dal box doccia, con i capelli insaponati e rischiando lo scivolone e l’osso sacro.
- Cos’è successo??
- Ho detto… - mescolino e voce incrinata – ho detto… delle bugie… -
- Delle bugie? A chi? –
- A me. Parlavo da sola. –
- Ah bè.  Erano molte? –
Annuisce, mesta: - tantissime -
Benedetto approccio quantitativo di certe nonne! Non so quale insana buona educazione mi abbia trattenuto dal chiedere: - erano belle? -

domenica 5 agosto 2012

Click Books

C'è una cosa che non avevo messo in conto, nella stima del prezzo da pagare per godere degli innegabili vantaggi del mondo e-books. Avevo valutato le cose più ovvie: ad esempio la sensazione di povertà sensoriale causata dal maneggiare sempre lo stesso oggetto, con la medesima consistenza tattile e un odore sempre uguale. Cosi ovvio che avevo date per scontate sessioni esplorative in libreria, con il naso fra le pagine e i polpastrelli all'erta. Avevo messo in preventivo anche la mancata corrispondenza fra l'avanzare della storia, la progressiva familiarità coi personaggi e lo spostamento di spessore dalla mano destra alla sinistra, così come ero consapevole di quanto mi sarebbe mancata la differenza fra leggere un libro nuovo e rileggere un libro già letto, con le sue pieghe e le pagine che han preso luce e quelle che son state più volte accarezzate. Sapevo che aprire un libro intonso e ritrovare un vecchio libro sarebbe stato assurdamente la stessa cosa: anche se avessi letto la stessa pagina centinaia di volte, per anni, si sarebbe aperta sempre allo stesso modo. Lo sapevo.  Ma una cosa che proprio non avevo messo in conto é la sensazione di spaesamento che avrei provato una volta finito il libro. Lo smarrimento che mi avrebbe causato non poter scrivere a matita - leggero- il mio nome sulla prima pagina, pensando 'a chi potrà piacere?'. Decidere a chi prestarlo. Tenerlo per qualche giorno sulla mensolina dell'ingresso in attesa dell'occasione per consegnarlo alla persona prescelta. Un e-book quando è finito è finito. Un click per spostarlo nella cartella 'letti' e in un secondo é fatta. Come amici che partono senza saluti perché tanto ad ogni momento puoi richiamarli sullo schermo con un click. Non avevo idea che mi sarebbe mancato salutare i libri con un abbraccio e sospingerli dolcemente verso il prossimo lettore.

sabato 21 luglio 2012

Il Gambero


- Ah ecco, vi consiglio questo: si chiama Il Gambero, è un ottimo ristorante di pesce, a venti minuti da qui, sulle colline – e aggiunge -  a me piace tantissimo, ci vado spesso. Se volete posso prenotare per voi –
La receptionist ha già in mano la cornetta e sorride, di quel sorriso bianco che solo le donne molto brune possono sfoggiare. Ha una grazia particolare, una specie di riuscita miscellanea fra la professionalità richiesta dal Grand Hotel, l’efficienza leggera tipica della Romagna  e il calore partenopeo da cui proviene – sempre che il nome sul cartellino non tradisca. Perché a volte, i nomi, son traditori.
Accettiamo, ringraziamo e partiamo. La strada si fa presto stretta e ripida, la collina è verde e il tramonto dolce. La giornata è stata lunga, calda e avara di vettovaglie; lasciamo che l’aria fresca riempia l’auto e chiacchieriamo leggeri e allegri, pregustando il pesce e i suoi sapori.
-       Ecco la freccia, prendi a destra –
-       Dove?-
-       Lì, non vedi? Il Gambero, Specialità Chianina –
-       Chianina? Ma non si mangia pesce? –
-       Boh, faranno tutt’e due –
Tavoli affacciati sul panorama, apparecchiati con semplicità e colore. Veniamo accolti, accompagnati, serviti di un cestino di vari tipi di pane e stuzzichini fragranti ed infine dotati di menù. Chianina, quasi dappertutto. Poi paste fresche, sformatini, formaggi e verdure di ogni tipo. Perfino il gaspacho.  Di pesce neanche l’ombra.

Sazi e appagati di carne come due felini, un paio di ore più tardi ci accingiamo a saldare un onesto conto. Alla cassa, il proprietario e chef, con grembiulone e gran sorriso romagnolo, ci chiede, gentile: 

-      Tutto a posto? siete stati bene? -
-     Benissimo, ma siamo rimasti un po’ stupiti perché ci avevano detto che la vostra specialità era il pesce -
-     Pesce?? Che strano, mai cucinato pesce…. -
-     Ma scusi mi tolga una curiosità, come mai allora il ristorante si chiama Il Gambero? -
-     Eh, perché io mi chiamo Gamberini, ma è dalle elementari che mi chiamano il Gambero-

Ecco, appunto: i nomi, a volte, son traditori. E per fortuna che questo Gambero non si è fatto condizionare: magari, fosse stato un po’ più influenzabile, avrebbe cucinato crostacei mediocri per tutta la vita, ed invece se ne è fregato, del destino nascosto nel suo nome, e ci ha reso felici con la Chianina che, a quanto pare, è la sua passione. Bravo Gambero!

lunedì 16 luglio 2012

Le coppie che si coltivano


Mi piace vedere le coppie che si coltivano. Anche se c’è chi dice che l’amore dura cinque anni, o forse proprio per questo. Mi piace vedere le persone che giocano la vita sul piano inclinato, senza aggrapparsi ai bordi. Le donne che quando si alza il vento raccolgono i tovaglioli e sciolgono i capelli. I bambini che si sbucciano le ginocchia per la curiosità, e per l’urgenza di andare ad abbracciare un paio di gambe col vestito dell’ufficio. Gli uomini che aspettano il tramonto, quando il sole non brucia più e la terra beve. Mi piacciono le famiglie che vogliono esserlo, quelle che lo diventano, quelle che sanno cosa vuol dire. Quelle che lo sono state, quelle che non lo saranno mai, quelle che lo sono adesso e quelle che lo saranno per sempre.

sabato 7 luglio 2012

Tribute

Non è nella disperazione che il coraggio dispiega al vento la sua criniera, checché ne dicano i detti popolari: è nell’esplodere del desiderio della felicità.

E non è nella culla della serenità, che la felicità mette radici e splende.  E’ la fiducia nel coraggio che la alimenta, facendola brillare ogni notte. 

Per questo la stella caduta aveva ragione, quando disse al leone parlante ‘Tu mi salverai con il coraggio ed io ti salverò con la felicità.’ 

lunedì 2 luglio 2012

A me non piace il calcio

Si lo so che non mi piace il calcio. Nè il pullmann dei tifosi, nè gli stipendi dei calciatori e gli annessi e connessi, e neppure le venticinque pagine sui quotidiani del lunedì.

Però certe sere d'estate ci sono le seggiole di plastica sul prato davanti al gioco bimbi del mio palazzo e la tv grande che quello del pianterreno ha collegato, e c'è un bambino biondo che chiede 'papi ma stasera ci sono i fratelli d'Italia?'. E poi quel silenzio nelle strade, ad una cert'ora, e quel disappunto che esce d'improvviso da tutte le finestre dopo quel fiato sospeso collettivo, che pareva che perfino i lampioni del vialetto perdessero un colpo, ecco si, insomma, non che mi piaccia ammetterlo, ma certe sere d'estate me lo dimentico, che a me non piace il calcio.

lunedì 25 giugno 2012

La casa delle bambole


I ricordi mi sono venuti incontro appena varcato il cancello, numerosi come i sassolini del viale di ghiaia. E’ un luogo della mia infanzia, questo giardino vestito a festa, con gli alberi secolari a fare ombra ai tavoli elegantemente apparecchiati e bambine che si rincorrono nell’erba, fra l’incurante e il fiero dei loro abitini chiari e dei fiocchi e dei sandalini nuovi.
E’ socchiusa la porta di casa, sull’atrio ombroso dai grandi muri freschi. Alle pareti, le foto color seppia dei bisnonni da giovani han fatto posto a lauree e matrimoni, a generi e nipoti, e si preparano ad accogliere i parenti nuovi di Milano.
E’ tutto pronto? È tutto in ordine?  - sembrano sussurrare i bisnonni dalle foto - Allora svelti, in chiesa, che il parroco sarà già arrivato.
Stanno arrivando, i parenti da Milano, un incidente, il traffico, la coda, spiega la nonna al parroco che attende sulla soglia della cappella di famiglia, mentre la madrina distribuisce ventagli e i genitori aggiustano la lunga veste da battesimo e la coroncina di fiori e una carezza sulle guance di seta della festeggiata addormentata.
Ma è un prete di campagna lui, guarda poco l’orologio ed è abituato a pazientare. E poi intanto, magari, ne approfitta per ripassare il rito, che alla sua età lo sa, che qualche volta perde il filo. A proposito, com’è che si chiama la bambina? E tutti in coro, di nuovo: ‘Virginia!’.
Ma lui intanto sta già pensando ‘speriamo che si apra l’ampolla dell’olio benedetto, che l’ultima volta mi ha fatto tribolare’. Ed infatti, anche stavolta, pare proprio non volersi aprire: zii, nonni e cugini, tutti a tentare di svitare il tappo. Fammi provare. Non c’è uno schiaccianoci? Perfino il cameriere col grembiule ad un certo punto fa il suo ingresso, brandendo un cavatappi. Per l’amor del cielo non me la bucate, eh?
Intanto i mazzi di peonie bianche e rosa spandono il loro profumo, e fra un sorriso e una preghiera Virginia viene battezzata, con tutti i crismi e con tanto amore.
Poi gli abiti colorati si riversano sul prato e i calici vengono distribuiti e la festa si dispiega lieta: all’ombra degli alberi secolari gli zii e i cugini, e le nonne e le bisnonne,  tessono una volta ancora la trama della famiglia, scambiandosi il filo dei ricordi e dei progetti  ‘ti ricordi l’estate in cui abbiamo fatto naufragio?’  e poi: ‘sarà maschio o femmina?’ - sfiorando una pancia con un dito.
Prima dei saluti, le bambine vestite di lino - sorvegliate dal bassotto fedele -  libereranno da carta e fiocchi il regalo per Virginia: la casa delle bambole che ritroverà, estate dopo estate, nella casa dei nonni.  E tutti intorno, sospireremo. Perché lo sappiamo che non c’è regalo più bello di una casa dei nonni da ritrovare, ad ogni estate, ad ogni festa, una casa dove ogni sassolino è un ricordo e dove potresti anche trovare, chissà, rovistando nei cassetti in un pomeriggio afoso, mentre mamma e papà riposano al piano di sopra e le api ronzano in giardino, una scatola bianca e rosa con il tuo nome ricamato sopra. L’ha fatta la nonna, per il tuo battesimo. Davvero? Sì, l’abbiamo festeggiato qua. Vi ricordate? C’era l’olio santo che non si apriva….

lunedì 18 giugno 2012

Superflui

Certo che a guardarci con gli occhi dei nostri animali domestici dobbiamo apparire molto strani.
Corpi implumi, mantenuti sempre più attentamente implumi, e un gran ciuffo sul capo. Curato e pettinato, agghindato, spesso colorato, palesemente considerato parte fondamentale del nostro aspetto – a tal punto che ci sono persone che dedicano la loro vita all’arte di acconciarlo e fior di industrie che studiano, producono e vendono prodotti specifici per la sua cura. La descrizione di questo ciuffo è sempre centrale nella descrizione di noi stessi e delle altre persone: è biondo o bruno, licio o ricciolo. Ci distingue gli uni dagli altri. L’ordine e la fantasia con cui lo acconciamo parlano di noi. E comunque,  banalmente, la misura della sua importanza è comprovata dallo sconforto in cui ci getta la sua perdita.
Ma contemporaneamente noi cacciamo dal resto del nostro corpo ogni altro pelo. Superfluo, lo chiamiamo. Perfino gli esemplari di genere maschile, nel passato fieri di una certa villosità, considerata simbolo di mascolinità, ora preferiscono il corpo implume. Preferiscono la pelle nuda, che attesta ad ogni osservatore l’evoluzione di una specie che si scalda in case coi termosifoni e si copre di piumini e maglioncini, potendo in tal modo considerare, a tutti gli effetti, superflua la pelliccia.
D’accordo, ma il ciuffo sulla testa?

lunedì 11 giugno 2012

Come da un cupcake

Come da un cupcake dal cuore caldo, escono certe notizie da certi grandi occhi color cioccolato.
Si spandono lentamente, e puoi impiegare tutto il tempo che vuoi che per assaporarne la dolcezza.
Te le senti nella pancia e sulle labbra appiccicose. E sulla punta delle dita, logico.

E poi pensi che è una gran fortuna aver messo su questo salotto per il tè, perchè ti va proprio di offrirle su un vassoio d'argento, certe notizie.

lunedì 4 giugno 2012

Qual è il titolo di questa canzone?


C’era un cielo lungo lungo in cui correvano le code delle nuvole bianche, e le macchine sotto, lungo lunghe strade verdi, di campagne ben stese sui fianchi dolci delle colline; e poi un cielo che era solo lo sfondo piatto di una luna rotonda e piena e senza appigli, né alibi o nascondigli, la pelle liscia di una mano aperta.  Poi c’era un cielo gonfio come certi occhi alla mattina, e una porta che si chiude e una valigia fra le pozzanghere del vialetto e una fila di gocce, rimaste attaccate alla ringhiera.

domenica 27 maggio 2012

Diventare - 1


Ho deciso che non voglio più desiderare di essere una persona che va a dar da mangiare alla sua colf straniera, che immagina sola e spaventata in un letto di ospedale.

Voglio diventarla.

sabato 19 maggio 2012

Nemesi

Questo post è dedicato a tutte le ragazzine di prima superiore che hanno un blocco in gola quando incontrano nelle scale quello di quinta.

Quelle ragazzine che quando lo incontrano diventano irrimediabilmente consapevoli dell’acne sulla fronte, delle gambe da fenicottero infilate in un paio di scarpe che non sono quelle giuste, della massa di capelli che con la pioggerella che mi son beccata venendo a scuola in bici sarà ispida come un cespuglio di more. E non chiedete chi è lui. Lui è quello che una volta vi ha salutate. E’ quello che ha fantastici capelli un po’ lunghi sul collo o sulla fronte, e un fantastico paio di occhi e sicuramente la moto e ha tutti gli amici giusti e una ragazza molto carina di un’altra scuola e tutto il resto che non vale la pena star qua a spiegare perché tutti lo sanno chi è lui. E una volta vi ha salutate. E da quella volta, ogni volta che lo incontrate sulle scale state per dire ciao ma poi lui vi passa accanto lanciando le scarpe giuste – lui ha sempre le scarpe giuste e la giacca giusta – giù per le scale e intanto sta  salutando qualcun altro due piani più sotto e sta dicendo arrivo e voi siete ancora lì che cercate di tirarvi giù il ciuffo.

Bene, ragazze. Sappiate una cosa. Verrà un giorno in cui lui sarà il vostro vicino di casa. Avrà una moglie con la voce stridula e un numero imprecisato di figli piuttosto capricciosi. E il destino vorrà che ogni volta – e dico ogni volta – che vi incontrerete lui avrà la maglia sporca di umori di bimbi o sarà incalzato dalla moglie petulante che gli enumera lavori domestici da sbrigare o sarà sudato e ansimante dietro ad una bicicletta con le rotelle. Mentre voi, ogni volta  -  e dico ogni volta –  starete andando ad un importante incontro di lavoro con indosso il vostro completo migliore o sarete vestite per una festa o di ritorno dal parrucchiere. Lui vi saluterà ogni volta per primo - quasi sempre cercando di tenere la pancia in dentro. Voi alcune volte sarete al telefono e gli farete solamente un cenno.
Tutto questo, un giorno, accadrà. Pensate  a questo, ragazze, domani, quando lo incontrerete sulle scale.

lunedì 7 maggio 2012

Buonsenso hobbit

' .... e poi, in fondo alla sua anima viveva ancora indomito il buonsenso hobbit (...).  Il piccolo giardino di un libero giardiniere era tutto ciò di cui aveva bisogno, e non un giardino ingigantito alle dimensioni di un reame; aveva bisogno di adoperare le proprie mani, e non di comandare le mani altrui'.
(Sam Gangee, nel Signore degli Anelli di JRR Tolkien)

Sono andata a mettere la mia croce sulla scheda, ieri sera. Mi sarebbe tanto piaciuto poterla apporre sul nome di Sam Gangee.

domenica 29 aprile 2012

Profilassi

Forse la distanza che le persone hanno bisogno di mantenere dall’infelicità altrui altro non è che l’esatta misura di quanto considerino instabile – o effimera – la propria felicità. O precario il proprio presunto  - talvolta millantato - equilibrio emotivo.

Come se la tristezza altrui potesse contagiarci e non ritenessimo di avere un sistema immunitario sufficientemente forte per respingere l’attacco.

Forse le persone più a rischio dovrebbero essere vaccinate, proprio come i bambini e gli anziani per l’influenza, per scongiurare una pandemia di egoismo.

mercoledì 25 aprile 2012

Sei

Come in un assurdo gioco di prestigio, o nel capitolo centrale del più tradizionale dei fantasy, trovarsi legati e intontiti e scoprire che due gambe potevano diventare una. Ma anche 3 e mezzo. Prima però bisognava aprire la porta. Stare in piedi mentre tutto diventa buio e contare. Se arrivi a dieci e non sei svenuta puoi partire. Basta un poco di zucchero, o la voce più dolce del mondo che conta con te. Un corridoio lunghissimo, ma io non lo sapevo che avevo il cannocchiale al contrario. Forse guardiamo sempre dentro un cannocchiale ma non lo sappiamo, e meno che mai sappiamo se è al dritto o al rovescio. Il tempo per esempio, ecco l'orologio lo guardavo col cannocchiale dalla parte giusta, questo é poco ma sicuro. E la clessidra mi rovesciava sabbia sempre nella stessa giuntura. In bocca anche, qualche volta, ma alla sera poi c'era tutta quell'operazione di lavarsi i denti con il gioco dei due bicchieri e mi sembrava che avessimo quattro braccia e forse infatti é stato da lì che abbiamo cominciato ad averle davvero. E la porta stava sempre là in fondo al corridoio. Uno due tre quattro, buio. Poi cinque, poi sei. Finché sono arrivata a dieci e poi anche davanti alla porta. Il coraggio é un inciampo a volte, a volte una necessità. Altre volte é un ostinato visitatore, torna sempre ma non sai mai quanto si fermerà. Quella volta comparve con un cesto di rose e ostinato ottimismo e io ne approfittai. Ho scoperto, poi, che un ostinato ottimismo può farti arrivare lontano ma non può cancellare l'ombra di paura che da un certo giorno in poi ti accompagna. Ma solo Peter Pan é senza ombra, e non é per caso che sta nell'isola che non c'è. Noi abbiamo un certo numero di ombre ma anche tre gambe e mezzo e la nostra isola c'è.

domenica 15 aprile 2012

Stamattina

Sento il sole, appena oltre le nuvole, come se se ne stesse dietro le tende a guardar fuori cincischiando. Come se si stesse chiedendo: "esco o non esco? .... okey dai vado". E poi uno sbadiglio: "...e se invece tornassi  a letto un altro po'....?''.

La pioggia, intanto, continua sgocciolare sul prato. Come una carezza che si prolunga: sembra che sia finita e invece poi riparte, lenta. E sotto, l'erba, ferma ferma, ne gode.

Perfino io, stamattina, infilerei galosce nelle pozzanghere, e senza occhiali e senza ombrello mi lascerei dissetare un po'.

domenica 8 aprile 2012

Il primo ricordo

Dicono che il nostro primo ricordo sia il momento in cui nasciamo per noi stessi. Fino al nostro primo ricordo siamo esistiti solo nelle parole negli altri, che ci raccontano di noi, di come eravamo e di quello che ci succedeva intorno.  A volte ce lo raccontano talmente bene e ce lo ripetono talmente spesso che ci sembra che quegli eventi facciano davvero parte della nostra memoria. Ma non è così: la traccia della nostra vita che tracciamo con le nostre mani pare che inizi nel momento in cui noi ‘siamo’ nella nostra coscienza.
Il mio primo ricordo è d’inverno, in montagna. Sono in piedi davanti a una grande finestra e appanno i vetri col respiro. Fuori infuria la tormenta. Fischia il vento e turbina la neve. E’ buio. So che alle mie spalle c’è una tavola apparecchiata per quattro. Mi arriva profumo di cibo e sono al caldo, in una casa che non è la mia ma in cui sto bene. Il centro di questo ricordo è la voce della mia nonna, quella voce di quando inventa per noi un gioco fantastico. Quella voce che ti porta via come un bianco cavallo alato, in un cielo di sorprese e di certa felicità. La nonna dice, enfatica:  ‘bambini …. c'è la tormenta!’ e poi ci dà una candela da tenere in mano, perché la zia, che sta tornando a casa, veda la luce dalla finestra ‘e non si perda, in questa tormenta’.  Accanto a me c’è un bimbo, che prende la sua candela. Per un attimo ci guardiamo, gli occhi spalancati alla stessa altezza e nello stesso incanto. Poi torniamo a guardare fuori, fra i fiocchi, con le spalle che si toccano, coi respiri che appannano il vetro.
Oggi quel bimbo è diventato papà, e credo che abbia passato la notte a guardare fisso nella tormenta, con una candela in mano per far luce alla sua bimba in cammino verso casa. Le racconterà di stanotte, della sua nascita nel giorno di Pasqua, come una sorpresa tanto attesa che ha finalmente rotto l’uovo. Finchè questa bimba non avrà il suo primo ricordo e nascerà di nuovo. Ed io, nel dirle benvenuta, le auguro con tutto il cuore che il suo primo ricordo sia dolce e magico come il mio.

domenica 1 aprile 2012

Brevemente

Leggo i giornali, twitter, qualche blog.  Ascolto la radio e la tv,  le chiacchiere del persone sul treno, alla cassa del supermercato, durante qualche cena fra amici. Si parla del governo e delle misure e della crisi.
Mi capita continuamente  di ripensare a quando, durante la riabilitazione del ginocchio, imploravo singhiozzante il mio fisioterapista di smetterla, di togliere le mani dalla mia gamba, e poi, nella pause fra una manipolazione e l’altra,  fra le lacrime gli dicevo ‘tu non ascoltarmi, fai quello che devi fare’.
Chissà come mai.

lunedì 26 marzo 2012

Salutando Antonio Tabucchi

'Finestre: ecco ciò di cui abbiamo bisogno, mi disse una volta un vecchio saggio in un paese lontano, la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo. '
(A.Tabucchi, Si sta facendo sempre più tardi)


lunedì 19 marzo 2012

Dedicato a chi accetta le sfide - 3

Ha un nome  difficile da pronunciare, che inizia appuntito e tintinnante e finisce con un’onda melodiosa. Fa pensare al modo in cui i suoi capelli ricci e irti sembrano aver radice in un paio di occhi molto grandi, molto neri e molto dolci. Indossa un paio di giovani jeans che fasciano le giovani gambe snelle ed una giacca dal tono professionale che le calza a pennello.

Arriva al colloquio in anticipo e decisa a piacere, senza clamore. Snocciola la sua storia come se volesse scrollarsela di dosso. Come se volesse avvertirmi che è disposta a raccontarmela ma non ha nessuna intenzione di barattarla con la mia benevolenza.

E’ nata a Casablanca ed è arrivata in Italia a 4 anni, con una mamma analfabeta e velata e un papà che ‘ha presente lo stereotipo del commerciante marocchino? Ecco uguale: dal kebab alle auto usate passando per le magliette e il banco da ambulante’. E sulla sua fronte compare per un attimo la scritta ‘e io gli voglio bene, maledizione’ ma è solo un attimo, poi scompare. Andiamo avanti. Ho studiato anche se i miei genitori non volevano. Sì certo che l’università me la sono pagata. Mi sono pagata anche l’affitto, ovvio. E se è per quello ho pagato anche per mettermi i jeans e per non sposare a 18 anni il figlio del fratello del cognato, ma c’è altro di me da sapere.

La tesi in Giappone, per esempio, perché avevo bisogno di capire cosa voleva dire essere me senza essere né una donna araba in occidente, né una studentessa occidentale in una casa marocchina. Volevo imparare una lingua che fosse straniera per tutti quelli che conoscevo. Oppure quell’estate che ho venduto porta a porta in Andalusia perché mi sembrava che il mio spagnolo non fosse ancora abbastanza buono e ho fatto amicizia con tutte le vecchiette del paese. Ma ha anche venduto qualcosa?  Mi guarda un po’ strana:  bè certo, se no perché mi avrebbero tenuta?  Già. E poi la tesi del master in Libano, perché volevo imparare l’arabo quello vero, non quello che parlano tutti nel quartiere dove abito. Abitavo. Abito. Non lo so, perché tutto ciò che possiedo sta in una valigia da 20 kg, compresi vestiti, scarpe e pc, ma in quella casa di quel quartiere c’è uno scatolone con puzzle e fotografie e libri e ci sono le persone da cui torno dopo ogni esame, anche se lo so già quello che mi aspetta io torno, torno sempre. Poi quando sarà il momento quello scatolone lo porterò fra altre mura, che chiamerò casa. Perché una casa ci vuole. Anche se solo per avere un grande armadio e sapere che puoi tornare a guardarci dentro, qualche volta, no?

Ma adesso torniamo a noi, perché è un lavoro quello per cui sono qui. Un lavoro che dia da mangiare a me e alle mie ambizioni, che mi metta davanti alla vita e in cui ci sia da vincere o da perdere, e che questo dipenda da me. Sì dottoressa, lo so che questo lavoro è difficile a 27 anni, soprattutto se sei una donna, soprattutto se hai un nome come il mio. Ma ho guadagnato il rispetto di chi ho deluso e mi creda: saprò guadagnarmi anche il suo.

In effetti sì, le credo.

lunedì 12 marzo 2012

Certe conversazioni

Certe conversazioni sono come ricevere una lettera anonima, con i caratteri del giornale incollati a formare una frase tutta storta.  
Puoi anche gettarla nel cestino, ma continuerai ad averla in mente e l’indagine è già cominciata prima che tu possa dire ‘via’. Andrai anche a ripescarla, fra le buste delle bollette e un biglietto del treno, e proverai a lisciarne le pieghe cercando dietro ad ogni dettaglio un pezzettino di senso. Te la porterei addosso per tutto il tempo, come un presagio o come l’odore di un luogo dove sei stata.  Quand’eri lì non lo sentivi, ma dopo te lo senti nel cappotto e nei capelli e ti sembra non riuscire più a trovare l’uscita.
Ad un certo punto capirai. Capirai poco alla volta o tutto ad un tratto, la sera stessa o dopo mesi. Non importa, quello che è certo è che saprai di aver capito quando la soluzione calzerà come un guanto sulla sensazione che hai provato aprendola, quella lettera, la prima sensazione. Il sapore che hai sentito in gola. Il rumore che ha bussato nella gabbia toracica prima che il tuo cervello chiedesse chi è. Sì, proprio quella sensazione che per tutto il tempo hai cercato di ignorare.

sabato 3 marzo 2012

Qui Pianeta Prishilla

'Io non credo che invecchiamo. Credo che mutiamo continuamente la faccia che presentiamo al sole.'
Virginia Woolf

Mi piace pensare che in questo preciso momento c’è una parte di me che sorseggia un aperitivo su una terrazza affacciata su un rosso tramonto e un’altra parte di me che sta facendo colazione con latte e nesquik, dondolando i piedi nudi dalla sedia della cucina, mentre la me stessa che scrive sta dando una mescolata agli spaghetti, nella grande pentola di acqua bollente del mezzogiorno.


domenica 26 febbraio 2012

Dedicato a chi accetta le sfide - 2

Quello che fa di una sfida una sfida (grande o piccola, epica o quotidiana che sia) è il fatto di poterla anche declinare. Puoi dire alla vita no grazie, io aspetto qui.
Quello che rende grandi certe persone, e certe storie, non è il fatto di aver vinto la sfida, ma di averla raccolta (e meno che mai è l’aver fatto cose grandi quando non c’erano alternative).
Io ne ho lasciate tante, di sfide, a marcire sui rami, inutili prede degli uccelli. Ma so cosa vuol dire anche raccoglierne qualcuna. So anche cosa vuol dire pensare che non ce la farai, che questa volta la vita ti ha battuto, eppure sapere che quell’unico punto che hai segnato valeva il sudore della partita e forse anche i fischi dagli spalti.
Poi se ci penso le sfide che ho vinto sono passate attraverso quelle che ho perso. Se vinci sempre è solo fortuna, o è perché ti piace vincere facile. Se vinci sempre sei il primo ad iniziare a farti l’idea che ci sia sotto un imbroglio e che forse in realtà tu altro non sia che un impostore. Però quando vinci dopo aver guardato negli occhi la sconfitta, quando vinci e senti in ogni muscolo l’ombra della paura e i denti ti fanno male da tanto li hai stretti per non mollare, ecco che allora ti viene proprio da battere un cinque alle stelle.
Quindi oggi tra Rogoredo e Lambrate vorrei appendere uno striscione, e scriverci su con la bomboletta spray. Scriverei raccogli quel guanto da per terra e non lasciare che sia l’aria che tira a decidere se poggiartelo sui piedi o farlo rotolare via.
E poi in piccolo scriverei p.s. conta su di me. Lo scriverei perché se c’è una che lo sa bene quanto conta nelle sfide il tuo fan club, quella sono io.

domenica 19 febbraio 2012

Certi giorni, le belle notizie

Certi giorni le belle notizie sfavillano, come luci che si accendono nel tardo pomeriggio, dietro la vetrata affacciata sulla piazza più bella e antica della città.

Notizie di bimbi in arrivo e di primi baci.

La preghiera che abbiamo recitato, poco fa, sotto alla cupola affrescata, intorno al fonte e ai suoi bassorilevi.

Sfavillio di bicchieri che si incontrano, fra una distesa di confetti azzurri e uno svolazzare di tulle e di lecca lecca. 

La presenza di chi è sempre con noi, fra due stelle che ho visto affacciarsi, al di là del vetro, tra le nubi e il campanile.

Un bimbo in arrivo e un primo bacio scoccato, ed io che penso che certi giorni le belle notizie sono regali, chissà perché.


sabato 11 febbraio 2012

Dedicato a chi accetta le sfide - 1

Capita, fra Rogoredo e Lambrate, di incontrare persone che credono che diventar grandi non sia roba da ragazzi. Capita di incontrare persone che pensano che non sia possibile giocare sul serio.

Vorrei dedicare questa storia a loro, ma non credo che passeranno di qua. Quindi pazienza, godiamocela noi.

Marco - Resoconto dell'esperienza

martedì 7 febbraio 2012

Vecchio Scarpone...


… con le stringhe ubbidienti e la suola dura, come un papà dall’abbraccio tenero e dalla barba ispida. Ho impugnato la macchina fotografica e lei subito ti ha cercato. Due click su questo bianco addomesticato da tetti e balconi e ha subito puntato lo sguardo in su, verso le montagne. Okey, le ho detto, andiamo. Mille scatti, il bianco puro e gli alberi grondanti, coriandoli di azzurro e immense gravide nubi a coprirne i lembi, distese di rami candidi immobili, un incantesimo, e lo scintillio di ghiaccioli pendenti e la legna addormentata. Mille passi, salire, affondare, una risata che fa il solletico al silenzio ed un berretto colorato, come un punto esclamativo nel bianco.  Il dolore sarebbe venuto, poi, compagno ormai della stanchezza buona. Sarebbe venuta anche la malinconia, come per un sorso bevuto e tutta quella tazza piena, lasciata lì. Ma non ora, più tardi. Ora scatta, scatta ancora, che la luce sta girando. E sali, dai, ancora un po’. Punta il calcagno, stai in costa, che chissà cosa si vede, lì più su.

domenica 29 gennaio 2012

Sleeping Therapy

Dormire come nutrirsi, fino a sentirsi sazi, sfamati. Aprire uno spiraglio di coscienza sul mondo, solo per controllare che sia davvero domenica e constatare di avere ancora sonno. Riannidarsi per bene, percepire confusamente l'approvazione del cuscino sotto alla guancia, il caldo assenso del piumone e affondare nel sonno, ancora un po'. Come ti serviresti un'altra bella porzione di pasta, e poi ancora due forchettate, fino a sentirti saziato.
Perchè il centro benessere, qualche volta, non è lontano del centro del mio materasso.