lunedì 19 marzo 2012

Dedicato a chi accetta le sfide - 3

Ha un nome  difficile da pronunciare, che inizia appuntito e tintinnante e finisce con un’onda melodiosa. Fa pensare al modo in cui i suoi capelli ricci e irti sembrano aver radice in un paio di occhi molto grandi, molto neri e molto dolci. Indossa un paio di giovani jeans che fasciano le giovani gambe snelle ed una giacca dal tono professionale che le calza a pennello.

Arriva al colloquio in anticipo e decisa a piacere, senza clamore. Snocciola la sua storia come se volesse scrollarsela di dosso. Come se volesse avvertirmi che è disposta a raccontarmela ma non ha nessuna intenzione di barattarla con la mia benevolenza.

E’ nata a Casablanca ed è arrivata in Italia a 4 anni, con una mamma analfabeta e velata e un papà che ‘ha presente lo stereotipo del commerciante marocchino? Ecco uguale: dal kebab alle auto usate passando per le magliette e il banco da ambulante’. E sulla sua fronte compare per un attimo la scritta ‘e io gli voglio bene, maledizione’ ma è solo un attimo, poi scompare. Andiamo avanti. Ho studiato anche se i miei genitori non volevano. Sì certo che l’università me la sono pagata. Mi sono pagata anche l’affitto, ovvio. E se è per quello ho pagato anche per mettermi i jeans e per non sposare a 18 anni il figlio del fratello del cognato, ma c’è altro di me da sapere.

La tesi in Giappone, per esempio, perché avevo bisogno di capire cosa voleva dire essere me senza essere né una donna araba in occidente, né una studentessa occidentale in una casa marocchina. Volevo imparare una lingua che fosse straniera per tutti quelli che conoscevo. Oppure quell’estate che ho venduto porta a porta in Andalusia perché mi sembrava che il mio spagnolo non fosse ancora abbastanza buono e ho fatto amicizia con tutte le vecchiette del paese. Ma ha anche venduto qualcosa?  Mi guarda un po’ strana:  bè certo, se no perché mi avrebbero tenuta?  Già. E poi la tesi del master in Libano, perché volevo imparare l’arabo quello vero, non quello che parlano tutti nel quartiere dove abito. Abitavo. Abito. Non lo so, perché tutto ciò che possiedo sta in una valigia da 20 kg, compresi vestiti, scarpe e pc, ma in quella casa di quel quartiere c’è uno scatolone con puzzle e fotografie e libri e ci sono le persone da cui torno dopo ogni esame, anche se lo so già quello che mi aspetta io torno, torno sempre. Poi quando sarà il momento quello scatolone lo porterò fra altre mura, che chiamerò casa. Perché una casa ci vuole. Anche se solo per avere un grande armadio e sapere che puoi tornare a guardarci dentro, qualche volta, no?

Ma adesso torniamo a noi, perché è un lavoro quello per cui sono qui. Un lavoro che dia da mangiare a me e alle mie ambizioni, che mi metta davanti alla vita e in cui ci sia da vincere o da perdere, e che questo dipenda da me. Sì dottoressa, lo so che questo lavoro è difficile a 27 anni, soprattutto se sei una donna, soprattutto se hai un nome come il mio. Ma ho guadagnato il rispetto di chi ho deluso e mi creda: saprò guadagnarmi anche il suo.

In effetti sì, le credo.

2 commenti:

  1. Le storie più incredibili a volte sono quelle più autentiche - anche perché ci vorrebbe una fantasia sovrumana per inventarle. In ogni caso, io parto sempre dal presupposto che a me interessa soprattutto la verità psicologica: quand'anche fossero inventate racconterebbero comunque "chi è" quella persona, i suoi desideri, le sue aspirazioni. E tanto basta...

    Ciao Prish.
    Pim

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  2. Hai ragione Pim, spesso quello che una persona inventa dice di lei molto più di quanto non dica la cosiddetta verità. In questo comunque, pare tutto - relativamente - 'vero'.

    Buona giornata!
    Prish

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