venerdì 15 settembre 2006

Il mio peggior pregio

Qualche giorno fa un blogger  (Raccontiamoci) ha lanciato una catena della serie “per conoscersi meglio” in cui chiede agli altri blogger di descrivere cinque propri pregi e cinque difetti. Molti hanno risposto sottolineando, con diverse modalità e diverse intonazioni, il fatto che pregi e difetti non sono che le due facce di una stessa medaglia. Io stessa, chiamata in causa, avevo fatto subito a caldo questa precisazione. Ma dal momento che non voglio che mi si accusi di aver usato questa scusa per svicolare dalla richiesta che mi è stata gentilmente rivolta (caratteristica che peraltro si potrebbe annoverare fra i miei difetti), ho deciso di pubblicare una breve riflessione su questo tema.


Spesso si chiede agli altri di descriversi in termini di pregi e di difetti e spesso si tende a valutare le persone, ma anche le situazioni, i luoghi, le esperienze, gli oggetti in termini di pro e contro, più e meno. Eppure siamo tutti ampiamente consapevoli che i pro e contro, i pregi e i difetti non sono che la stessa caratteristica letta in funzione di esigenze, aspettative, obiettivi, contesti diversi.


Allora perché lo facciamo? Perché esprimiamo con così tanta frequenza e persistenza questa esigenza di semplificazione? Da un lato si tratta di un comportamento adattivo tipico dell’essere umano, che induce a cercare delle “scorciatoie” di ragionamento – gli esperti parlano di euristiche – al fine di ridurre la richiesta di attenzione e di concentrazione tipica di un contesto così complesso e mutevole quale quello entro cui l’essere umano deve vivere, muoversi, prendere decisioni. In tal senso è del tutto giustificato il tentativo di facilitarci la vita attraverso l’utilizzo di categorie semplificate ma anche chiare e facilmente accessibili come buono/cattivo, amico/nemico. Anche se avremmo bisogno di un campanellino d’allarme che ci aiuti a capire quando è necessario un supplemento di indagine.


Con questa affermazione mi accingo ad introdurre la seconda parte del mio ragionamento: ovvero, cosa accade quando il processo di categorizzazione si rivolge verso noi stessi? Da un lato probabilmente siamo l’oggetto che abbiamo la possibilità di conoscere più da vicino, quello su cui abbiamo un maggior numero di informazioni, ma anche di cui abbiamo una più netta percezione di quanto sia complicato, mutevole e vario. Quindi la conoscenza di noi stessi non può che passare attraverso un processo di semplificazione piuttosto accentuato, pena l’assoluta involuzione su sé stessi o la narcisistica scelta di dedicarsi esclusivamente all’auto-conoscenza. D’altra parte in questa esperienza in cui siamo contemporaneamente oggetto e soggetto della conoscenza, abbiamo la possibilità di renderci conto in modo tangibile, inequivocabile e volte perfino doloroso, dei limiti del processo di categorizzazione. Sentiamo molto chiaramente quanto di noi resta escluso dal gioco dei pregi e dei difetti.


Quindi riflettere sul modo che ognuno di noi ha di semplificare la conoscenza di sé mi sembra un buon esercizio per attivare il campanellino d’allarme sopra citato. Ovvero, mi sembra una buona modalità per ricordarci, ogni tanto, di quanta parte di conoscenza del mondo tendiamo normalmente ad escludere. E’ utile continuare a farlo, se non vogliamo rimanere paralizzati nell’elaborazione approfondita di tutti gli stimoli che riceviamo, che ci impedirebbe di passare al momento dell’azione e della decisione: ma sarebbe anche utile ricordarsi che lo stiamo facendo, e magari fermare l’automatismo quando può servire.





Ok? Ci sono riuscita? Ho dato un esempio pratico del mio peggior pregio? Facevo sempre così anche agli esami…

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