domenica 9 settembre 2012

C'era una volta


Ero salita sul treno proveniente da Bari irritata per la lunga attesa sul binario, per il caldo che stupidamente non avevo preventivato, per la presentazione che non avevo finito quando sarebbe stato il momento di farlo e per quella telefonata in cui non avevo – come al solito – trovato il coraggio di dire un semplicissimo no. Avvicinandomi alla carrozza numero 4 sentivo la presentazione da finire che mi bruciava nella borsa e il risultato del calcolo mentale che avevo appena concluso che mi lampeggiava sulla fronte: dovevo sbrigarmi se volevo finirla prima di arrivare a Milano. Quindi stavo già guardando spazientita il signore col marsupio che non trovava il pulsante per aprire la porta, quando finalmente la porta si era aperta.

Vociare, borse, valigie, sacchetti in ogni dove, odore di frittata e di frutta di stagione. Presi un respiro profondo e mi tappai mentalmente il naso nel tentativo di farmi largo verso il mio posto prenotato attraversando indenne quella sorta di gita scolastica, in cui però l’età media era di circa 78 anni. I miei vicini di posto, devo ammetterlo, mi accolsero con benevolenza, pronti ad introdurmi nell’allegra comitiva che – a quanto pare – aveva ben sfruttato il viaggio da Bari per fare amicizia. Fu però loro ampiamente sufficiente lo sguardo con cui attesi che liberassero il mio sedile da un fascio di riviste di gossip, due pericolose scatole di polistirolo gorgoglianti e quattro sospette palline di carta stagnola, per rendersi conto che non avrei contribuito granchè alla conversazione. Perfino la signora col golfino all’uncinetto che continuava a ripetere speranzosa ‘fa caldo anche qua, eh’ capì che non saremmo andate oltre un cenno d’assenso quando vide la rapidità con cui accesi il netbook, collocai il blackberry sul tavolino e mi rivolsi al finestrino.
Lo sforzo per isolarmi dagli scambi di grappoli di uva, biscotti, barzellette e aneddoti su ospedali, malattie e vacanze alpitour e riuscire a finire la presentazione, pur essendo notevole,  non mi impedì però di mantenere la concentrazione per scavalcare la bolgia bofonchiando buongiorno e farmi trovare pronta alla discesa prima che la masnada si mettesse in moto. Il telefono però squillò mentre il treno si fermava e io risposi mentre con l’altra mano aprivo la porta e coi piedi già iniziavo a scendere le scale. La custodia del telefono mi sfuggì e volò, lenta ma inesorabile, sul binario. Proprio sotto ai gradini della carrozza numero 4. Irraggiungibile per il mio ginocchio zoppo, e probabilmente anche per il mio tailleur. Rimasi lì un attimo, interdetta, mentre la masnada sfilava fuori dal treno con borse e pacchetti. Stavo per andarmene aggiungendo questo contrattempo alla lista della giornataccia quando la scena improvvisamente rallentò.

Mi era arrivato accanto un ragazzino, con i jeans sporchi di viaggio a metà sedere e un grande zaino sulle spalle. Guardò nella direzione dei miei occhi e poi cercò lo sguardo dell’uomo che lo accompagnava. Altro grande zaino, pantaloni da viaggio e gli stessi capelli color miele del ragazzino. Gli occhi del figlio chiesero, gli occhi del padre assentirono. Stavo per dire ‘grazie non importa’ ma in una frazione di secondo il ragazzino era già inginocchiato sul binario e poi mi porgeva la custodia, lo zaino su una spalla sola e due occhi così trasparenti e puliti che in quel momento la scena si fermò.

Mi sentii come se quegli occhi avessero preso in mano un gomitolo nero che stava da qualche parte dentro di me. Sentii una vergogna così profonda per quel gomitolo nero, ma anche una gratitudine così chiara da non ammettere sensi di colpa. Sussurrai un grazie che avrebbe voluto aggiungere qualcosa -  ma cosa? - e intanto lui aveva già ripreso a camminare lungo il binario e mi aveva risposto un prego così soddisfatto e fiducioso che non poteva lasciarmi dentro che una scia di luce. Come un dito su un vetro appannato.  Li seguii per un tratto, verso l’uscita. Il padre aveva messo una mano sulla spalla del figlio, due zaini sporchi di ritorno da un’avventura. L’ho immaginato raccontare ad una mamma attenta. L’ho immaginato dire ‘e poi c’era una signora che non sapeva come fare perché le era caduta una cosa sul binario’ e una parte non tanto piccola di me avrebbe voluto non essere quella signora.

8 commenti:

  1. Raramente parli di te in modo diretto e immediato, Prish. Preferisci filtrare le tue esperienze attraverso la ricostruzione fantastica, il che rende i tuoi racconti doppiamente interessanti. Questa volta hai raccontato un'esperienza immergendola in un contesto concreto, ben riconoscibile (Frecciarossa, powerpoint, cellulare). Ecco, questa è la prima considerazione che mi viene in mente.
    La seconda è che hai descritto uno stato d'animo come una moneta che ha due lati, in cui l'apparenza lascia il posto alla verità. Ne hai tratto un insegnamento morale valido per tutti noi...

    Pim

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    1. L'altra faccia di uno stato d'animo. Mi piace molto questa lettura, rispecchia quello che avrei voluto scrivere forse molto più di quello che in realtà ho scritto. Grazie Pim.
      E visto che hai capito molte cose (!) te lo confesso: questo post iniziava in terza persona, poi man mano che proseguiva sempre più frequentemente le dita, involontariamente, viravano verso la prima persona. Così mi son detta: e sia, e ho cambiato tutto :-)

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  2. Passare dalla terza alla prima persona è qualcosa che ho messo in atto più di una volta. Ho affrontato anche il passaggio inverso, quando la materia si faceva troppo densa di emozioni...

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    1. Dai Pim, dalla prima alla terza persona singolare andata e ritorno è ancora accettabile.. forse dovremo inziare a preoccuparci quando inizieranno a tentarci i plurali!! ;-)
      un saluto a te e a tutti i tuoi alter ego
      prish

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  3. E' vero, il racconto ha toni diretti e personali, ma ciò che mi ha più colpita, e che maggiormente condivido, è la reazione a quel "signora" finale....
    Ah, la prima volta che lo senti dire è una frecciata al cuore... Poi, dopo la decim... ventesima volta.... inizi a farci l'abitudine...
    Infine, inizi a sorseggiarti questi riconoscimenti di età adulta gustandoli piano piano, come chi annusando da un gran calice cerca di carpire ogni profumo.... Il profumo non esser più solo una semplice ragazzina, qualche volta una fidanzata, una giovinetta, una tizia. Una signora. Cioè una DONNA.

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    1. Ciao Agnes!
      il punto non è tanto essere 'una signora' ma essere 'quella signora', quella che devo essere apparsa agli occhi di quel ragazzino e di tante altre persone. O meglio quella che in quel momento effettivamente ero :-)
      A presto e un abbraccio
      Prish

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