Ho un tesoro di centrini antichi e un ricordo di instacabili mani nodose che mi sembravano danzare.
I mezzi guanti a scaldare l'artrite, l'uncinetto avanti e indietro, dentro e fuori, senza guardare, novant'anni di maestria in una trina bianca e in un bianco perfetto cucù.
Quante ore di lavoro, quanta strada quelle mani. Le coperte colorate, le calze rammendate, i pizzi del corredo, le presine, gli scialli e tutti quei bianchi centrini... Quanti gomitoli, quante labbra serrate, quanti sogni, quante preghiere. Quanta afa tersa sulla fronte e quanti inverni imbacuccati.
Mi aveva insegnato lei il punto catenella. Le mie goffe mani bambine e le ginocchia sbucciate. Il profumo del pomodoro estivo dalla porta finestra, la poltrona gialla nel prato.
Facevo catenelle lunghissime. Troppo lente o troppo tirate. L'uncinetto che scivolava, gli occhi concentrati, la lingua fra i denti.
Col mio tesoro di centrini spiegato sul tavolo, mi sembra adesso di non avere mai smesso. Un'unica lunghissima catella. I primi occhielli perfetti, fatti da lei ("ecco così, vedi?"), gli altri tutti sghembi. Lungo tutti questi anni. Da questi bei centrini candidi alle mie mani screpolate. Un'unica, bellissima, ininterrotta, imperfetta catenella.
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