lunedì 26 ottobre 2009

Parentesi

Preoccupazioni fuori dalla finestra, sullo sfondo di foglie brune e oro, appaiono e scompaiono scompigliate dal vento e dal sole, al di là dei vetri, comunque. Dentro luce e colore, voci, visi, trillare di stoviglie, briciole salate e baffi di cioccolato. Rimanere ancora un attimo, fra parentesi.

lunedì 19 ottobre 2009

Va pensiero

D’ora in poi, nelle note del Nabucco riecheggerà per me l’emozione di una mano invisibile sulla spalla (non meno intensa perché invisibile, proprio come il canto non perde nulla della sua forza solo perché è difficile intendere le parole), una mano invisibile e cara che mi guida verso una sciarpa rossa e il sorriso che la indossa, una mano che in questa stretta, e in questo incontro, mi racconta che l’amore ha mille forme e tutte possono abitare lo stesso palazzo e la stessa barba bianca. E ancora mi racconta che la gioia ed il dolore non sono due facce di una medaglia, che se ne vedi una l’altra scompare, ma come queste voci, che si intrecciano in un coro di tenori e di soprani e riempiono questo teatro e queste orecchie aperte nel buio, anche la gioia ed il dolore, la tenerezza e la malinconia, la mancanza e la presenza, possono cantare insieme la loro sinfonia e vivere con noi, per sempre.  

domenica 11 ottobre 2009

Tema: Quella volta che ho dormito e non ho pigliato pesci


Tendenzialmente li lascio a casa loro, i pesci. Tutt’al più mi accontento di pigliarli con la macchina fotografica. Certo però che certi pesci varrebbe proprio la pena pigliarli, nel vero senso del termine. Soprattutto la Vigilia di Natale, soprattutto se è la prima che passi con tuo marito e soprattutto soprattutto se hai invitato a cena la famiglia di lui.


Tendenzialmente amo dormire. Sono una di quelle che mettono due o tre sveglie dal terrore di non riuscire a sciogliersi dal dolce abbraccio di Morfeo, e anche una di quelle che la domenica non ne vuol sentire parlare di riemergere dalle coperte prima che il sole sia bello alto nel cielo. E se piove cosa mi alzo a fare.


La Vigilia di Natale in questione di sveglie avrei dovuto metterne sei o sette, vista la tentazione di infilare la testa sotto al cuscino come il noto struzzo sotto alla sabbia. Da una settimana mi chiedevo quale demone mi avesse potuto fare lo scherzo di fare uscire dalle mie labbra l’invito. La Vigilia di Natale? La famiglia di Lui? Io cucinare per loro? Suocera, suocero, cognati e bambini? C’era un marziano dentro di me, quel giorno in cui l’ho detto. Ma perché, perché poi mi aveva abbandonato? Marziano codardo, dovresti essere qui a possedermi e ad apparecchiare, preparare il sugo ai funghi e procurarti il pesce! Accidenti a te.


Da una settimana imploravo il ritorno del marziano e intanto decoravo la scala con i rami di pino, appendevo palloncini, renne e stelline in ogni dove, nello strenuo tentativo di rendere quella casa - nuova e ancora troppo spoglia e troppo poco mia - un posto in cui potesse brillare almeno una scintilla del Natale. I risultati continuavano a rimanere piuttosto deludenti, in compenso per appendere la ghirlanda alla porta di ingresso ero riuscita a chiudermi fuori in ciabatte, il che aveva implicato la necessità assoluta di suonare alla porta degli sconosciuti vicini, consegnando loro una perfetta occasione per una buona azione che infondesse magicamente  nel vicinato lo spirito del Natale. Occasione mancata perché nel loro salotto imperava la lite con il figlio (vita molto bassa e frangia molto lunga) per l’ora del rientro dalla discoteca: ovvero prego telefoni e poi vada ad aspettare sulle scale.


Così, quella mattina della Vigilia, al suono della sveglia la mia unica reazione fu di picchiettare nervosamente sul tasto snooze in una sorta di segnale morse. Tre punti tre linee tre punti. SOS. Ancora cinque minuti. Tre punti tre linee tre punti. SOS Marziani mi sentite? Ad un certo punto era anche comparso un piccolo ometto verde, ma invece di correre in mio aiuto rimaneva fermo con il dito puntato verso di me e faceva DRIIIINNNN. O Mamma Santissima: che ore sono??


Era tardissimo, così mi ritrovai, vestita alla bene meglio e con l’unico conforto di un caffè trangugiato davanti all’ascensore, al'entrata della pescheria. Un sole pallido era alto nel cielo e dalla porta del negozio, che, accidenti a lui, non accettava prenotazioni, si riversava in strada una piccola folla. Signora deve prendere il numero, mi redarguì un coro di simpatiche vecchiette non appena tentai di allungare il naso verso la soglia. Okey Okey. Alla faccia dello spirito natalizio. Che fossero andate a colazione dai miei vicini?


Presi il numero. 75. Guardai il tabellone con il cuore in gola: segnava 3. Sconfortata attraversai la strada per un rinforzo di caffè e, confesso, feci un pensiero su bicchierino di sambuca. Al ritorno il tabellone mi diede una certa speranza, e con nonchalance riuscii a dare un’occhiata verso il banco frigo, che sembrava preso d’assalto dagli unni. Con mio grande sollievo  riuscii a scorgere una gran massa di branzini dagli occhi lucidi. Finchè una voce annunciò: Settantacinque! Ed io pronta: Sono qui Sono qui. Ma un energumeno dall’aria truce mi trapassò il costato con sguardo assassino. Signora lei ha il Settantacinque C, ora tocca al Settantacinque A. Che sarebbe lei? Sì. Ah.


Senza ritegno sedetti sul gradino, guardando con la coda dell’occhio la massa di branzini che si assottigliava e ad ogni numero mormoravo ti prego ti prego prendi i gamberi, la rana pescatrice, la piovra, no il branzino no ti prego ti prego. Stavo per chiedere ad una signora dai bianchi miti capelli cosa ne pensava di una cena della Vigilia a base di pollo arrosto, così tanto per chiacchierare, quando alle mie orecchie arrivò il grido. Settantacinque. C. O Mio Dio. Mi voltai col cuore in gola. Era rimasto solo un branzino striminzito. Posso darle una bella orata. Ehm, si cucina come il branzino? Più o meno. E’ mia.


Giuro, l’anno prossimo non vado neppure a letto.


sabato 3 ottobre 2009

Come se fosse un bigliettino passato sotto il banco

“Sono venuto a casa tua ogni giorno negli ultimi sei giorni. Non so perché ma avevo bisogno di rivederti”. Lei taceva (..) e scoppiò a ridere, a ridere più forte di quanto avessi mai sentito ridere qualcuno, e la risata portò alle lacrime e le lacrime portarono altre lacrime e poi cominciai a ridere io, di vergogna, la più profonda e completa, “Venivo a cercarti” ripetei, come a strusciare il naso nella mia stessa merda “perché volevo rivederti” e lei rideva, rideva, “Questo spiega perché….” Mi disse quando le riuscì di parlare. “Il perché di cosa?” “Spiega perché in questi giorni non eri mai a casa tua”. Smettemmo di ridere, io accesi il mondo dentro di me, lo riordinai e lo rimandai fuori in forma di domanda: “Ti piaccio?”. (J.S. Foer)


Questo spiega perché tante volte non riesco ad accenderti gli occhi, e veniamo a cercarci e non ci troviamo. Dovrebbero insegnarcelo, a scuola, che qualche volta lasciarsi amare è amare e che qualche volta voler amare è un modo molto sottile per non lasciarsi amare. Starò a casa più spesso, d’ora in poi: quando verrai, con la tua felicità per me, mi troverai. E non cercherò subito il modo per ricambiare.