sabato 29 luglio 2006

Altri riflessi di Meg

Meg -  naturalmente non è questo il suo vero nome -  è una donna che una donna come me può incontrare solo casualmente, fra i confini asettici di un luogo in cui le persone transitano sospinte da necessità riabilitative e in cui vivono lunghe ore in un’abitudine tanto quotidiana quanto transitoria.


Meg è una donna straniera e sola, è molto bella e da come si muove si capisce perfettamente quanto ne sia consapevole. Le piace vivere con un certo agio, le piacciono le cose belle, i viaggi e le feste, le piace ricevere regali e indossare vestiti eleganti.


Meg sa bene come procurarsi quello che desidera, e ha capito da molto tempo che ogni cosa ha un prezzo: è una donna intelligente e concreta, e non ama farsi illusioni.


Qualche volta le sembra che il prezzo da pagare sia troppo alto, magari quando si presenta all’ospedale con una spalla fratturata  raccontando di un'improbabile accidentale caduta. E questo le fa incupire lo sguardo.


Anche ad una donna come me qualche volta sembra che il prezzo da pagare sia troppo alto, magari quando ho passato le notti  e i weekend davanti al pc  per completare un lavoro di cui qualcun altro si prende il merito. E questo mi fa incupire lo sguardo.


Qualche volta invece a Meg sembra di vivere in un mondo troppo ipocrita, in cui nessuno vuole ammettere di capire la sua scelta, o la sua vita, e anche questo le fa incupire lo sguardo.


Anche ad una donna come me qualche volta sembra di vivere in un mondo troppo ipocrita, in cui le persone si invitano a cena fra mille moine solo per interesse o per fare bella figura in società. E anche questo mi fa incupire lo sguardo.


Né io né Meg cambieremo le nostre vite per questo. E’ questo che abbiamo in comune? E se è questo, è tanto o poco? Quanto ci assomigliamo, in fin dei conti, io e Meg?

domenica 23 luglio 2006

Ancora un po' di Meg

Meg -  naturalmente non è questo il suo vero nome -  è una donna che una donna come me può incontrare solo casualmente, fra i confini asettici di un luogo in cui le persone transitano sospinte da necessità riabilitative e in cui vivono lunghe ore in un’abitudine tanto quotidiana quanto transitoria.


Meg è una donna che viene da un paese straniero dal quale molte donne fuggono per ritrovarsi a lavorare nei nostri night. Con le sue fattezze e con ogni suo gesto sparge intorno a se lo stereotipo della sua storia ed io sono lì un giorno dopo l’altro a guardarlo, a raccoglierlo: bella donna dell’est fuggita dalla povertà per finire fra le braccia di farabutto che le fa vivere una vita pseudo agiata in cambio di sesso e percosse.


Vedere Meg riflessa accanto a me nello specchio - come me in pantaloncini e maglietta e uguale a me nella smorfia di dolore – mi porta a farmi delle domande, senza giudizi e senza buonismi, non voglio certo fare la retorica della prostituta vittima, ma piuttosto con una strana e cruda sincerità.


Mi chiedo come mi sentirei io se ad un certo punto della mia vita avessi scoperto che facendo danzare i capelli sul sedere potevo far impazzire qualcuno, potevo fargli desiderare il mio corpo fino a romperlo e ferirlo pur di lasciarvi il suo  marchio.


Mi chiedo come mi sentirei se ad un certo punto della mia vita avessi compreso, o accettato, che solo lasciando usare il mio corpo ad un uomo avrei potuto avere, avrei potuto fare, avrei potuto…


E infine mi chiedo: se avessi avuto questa storia come mi sentirei guardando una donna come me riflessa nello specchio? Cosa vorrei da lei?

venerdì 21 luglio 2006

Meg

Ha i capelli neri lunghi fino alla curva dei glutei e una bellezza che non consente di essere ignorata. Ha il portamento di chi si è esercitata fin da piccola davanti allo specchio e non porta il reggiseno. Ha l’accento straniero, arriva senza trucco sul viso ma con unghie laccate e perfette.


Se ne va con il sorriso vago di chi avrebbe potuto dire e non ha detto. A volte si volta per salutarmi e mi lascia in mano uno sguardo che è un amo e un laghetto torbido.


Quello sguardo si aggancia ogni volta al mio istinto di voler bene e ai miei pregiudizi, e ogni volta vorrei chiederle molte cose, ma soprattutto vorrei chiederle: cosa ti aspetti da me?.


Ti aspetti aiuto per uscire da lì, da quel laghetto torbido e da quelle unghie troppo perfette, da quelle magliette firmate che non hai i soldi per comprare, da quella spalla che non ti sei rotta cadendo accidentalmente?


O invece ti aspetti un abbraccio che comprenda, che accetti, che perdoni, che accolga le tue unghie e le tue magliette, le rose e i regali, il modo sapiente in cui muovi i capelli accarezzandoti le natiche e con cui tornerai ancora e ancora e ancora da lui?


Non ti farò mai la domanda. A me stessa  invece chiedo: saprei darti l’una o l’altra cosa?

venerdì 14 luglio 2006

Campione del mondo

Piccoli quadratini azzurri scorrono sotto di me e una lunga striscia blu scuro traccia la mia direzione.


Il braccio si allunga e la mano, con le dita tese a cercare l’angolo giusto, frange l’acqua;  le gambe sciolgono il loro battito lieve, regolare.


Piccoli scintillii danzanti di sole impreziosiscono le mattonelle e riscaldano il braccio che esce dall’acqua.


I polmoni chiedono aria e la testa si volta: per un attimo ho negli occhi nuvole bianche e alberi e poi di nuovo giù nell’azzurro.


Brevi spruzzi lieti accompagnano la bracciata, sempre più tesa, sempre più gioiosa nel suo abbraccio all’acqua;  il battito delle gambe si fa sempre più fluido, lo sento efficace e preciso, indolore.  Le stampelle dimenticate. Sto nuotando.


Oggi campione del mondo sono io. 

mercoledì 5 luglio 2006

Meteopatia?

Capita, a volte, che il cielo abbia proprio il colore del cielo, che il sole abbia il calore del sole, e che un brezza faccia muovere le chiome degli alberi e disegni piccole ombre fresche sulla pelle, spalmando di verde l’estate. In queste giornate a me sembra che ogni cosa sia come era nella mente di chi un giorno la pensò, quando ancora nulla esisteva. Anche io mi sento come dovevo sentirmi un giorno nella mente di chi mi pensò, e so di essere stata pensata felice, forte, in armonia con il mondo. Capita, a volte.  

sabato 1 luglio 2006

Cosa farei a un ragazzino che ruba il cartello segnaletico di stop per provocare un incidente e godersi lo spettacolo

Questa notizia mi ha tanto ricordato quei bambini che credono che il latte si produca direttamente nei cartoni, o che le bistecche escano così, in fettine, da una fabbrica. Cosa c’è, infatti, dietro ad un ragazzino che ruba un cartello segnaletico di stop per provocare un incidente e godersi lo spettacolo? Come se uno scontro fra due veicoli non fosse nulla di diverso da uno scontro fra trenini giocattolo: crash, bum, tutto per terra, ed ora via a rimettere insieme le rotaie, i vagoncini, l’alberello e poi di nuovo  ciuf ciuf….


Cosa c’è dietro ad un ragazzino che non si accontenta di far scontrare i trenini, che non si accontenta degli effetti speciali della multisala di ultima generazione, dove tutto accade come se fosse vero, ma vuole proprio vedere le lamiere contorcersi dal vivo?


Secondo  me c’è prima di tutto l’incredibile, insanabile ignoranza di chi crede che il latte si produca direttamente nei cartoni, di chi crede che le vittime degli incidenti si rialzino e si aggiustino con una gonfiatina come Wil Coyote.


Per questo io porterei questo ragazzino in un reparto di terapia intensiva, ma non come spettatore: lo costringerei ad avere cura dei pazienti, a toccarli, a lavarli, poi lo costringerei a dare brutte notizie ai parenti, a rimanere davanti al dolore senza poter far nulla per alleviarlo, lo porterei anche in un reparto ortopedico, lo costringerei a fare quei gesti tristemente necessari che fanno urlare i pazienti di dolore e poi lo costringerei ad asciugare le lacrime ed il sudore di chi è legato a un letto, sapendo che la sua vita non sarà mai più la stessa.


Perché nessuno lo fa?